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Imperialismo tossico d'Alang

Lo chiamano "shipbreaking" e viene praticato, soprattutto, tra India, Pakistan e Bangladesh - "Là dove muoiono le navi" (4)

  • 27 febbraio 2017, 06:46
  • 8 giugno 2023, 03:37

Terre avvelenate - di Tomaso Clavarino e Isacco Chiaf

RSI Mondo 27.02.2017, 07:00

  • ©Tomaso Clavarino

Dopo una vita media di circa trent’anni in mare, cargo, petroliere e navi da crociera, sono vendute a dei cantieri per essere demolite, in modo anche da ricavare acciaio e altri materiali. Ogni anno circa mille navi vengono smantellante nel mondo, e la maggior parte di esse finiscono in India, Bangladesh e Pakistan. Il 70% delle navi smantellate annualmente viene portata ad Alang, in India, e a Chittagong, in Bangladesh, dove vengono letteralmente spiaggiate lungo la costa dove imprenditori senza scrupoli sfruttano il basso costo del lavoro e l’assenza di regole in difesa dell’ambiente per massimizzare i profitti.

Alang, in Gujarat, India, è la più grande area del mondo dedicata alle attività di smantellamento della navi. Per decine di chilometri lungo la costa si susseguono cantieri che impiegano per lo più migranti provenienti dal Nord dell’India: dall’Orissa, dal Bihar e dall’Uttar Pradesh. I lavoratori vivono in baracche di legno e lamiera, senza acqua né elettricità. Le possibilità di fare ricerca e verificare i tassi di inquinamento e le condizioni dei lavoratori sono molto poche, in quanto i controlli da parte delle aziende e delle forze dell’ordine sono rigidi e i giornalisti non sono i benvenuti. Secondo Federico Demaria, uno dei pochi ricercatori ad aver svolto ricerche nell’area, esiste un “Sistema Alang”, che Demaria non esita a definire di stampo mafioso.


“Là dove muoiono le navi” è una serie di quattro puntate nella quale si vuole provare a raccontare quali sono gli effetti di questa attività in Bangladesh e India. Ultima mèta del nostro viaggio:

Terre avvelenate - di Tomaso Clavarino e Isacco Chiaf

RSI Mondo 27.02.2017, 07:00

  • ©Tomaso Clavarino

Il lavoro è stato realizzato grazie al supporto dello European Journalism Center (EJC)

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