Svizzera

Diritti…in testa

Si chiama Pussyhat e da cappello di lana è assurto a simbolo della rivendicazione dei diritti delle donne

  • 8 marzo 2017, 21:01
  • 8 giugno 2023, 04:58
Un'immagine scattata oggi a Berna

Un'immagine scattata oggi a Berna

  • Twitter, @spschweiz

Si chiama Pussyhat ed è stato il protagonista della Grande marcia delle donne del 21 gennaio, indetta contro il presidente Donald Trump. Lanciato da Krista Suh e Jayna Zweiman, in risposta alle frasi offensive pronunciate da Donald Trump in un video diffuso durante la campagna elettorale, in cui affermava di poter afferrare letteralmente le donne dai genitali – per essere educati- o meglio per la pussy, usando il suo colloquiale inglese, sinonimo di gattino.

Il successo planetario ha dato vita a un vero e proprio movimento globale. Un simbolo di lotta in cui tutte si riconoscono?

Chiara Saraceno, sociologa italiana, specialista delle questioni di genere e femminista degli anni’70

È un modo ironico per rovesciare il modo in cui spesso gli uomini vedono le donne, ovvero ridotte al proprio sesso, che loro spostano sulla testa, mostrando che sono esseri interi, pensanti, non si vergognano del loro corpo ma che rifiutano di essere ridotte a un organo sessuale. Ma io non mi riconosco in questo tipo di protesta, non scenderei mai in piazza con una “pussy” in testa.

Vania Alleva

Vania Alleva

  • ©Keystone

Di parere opposto Vania Alleva, presidente di Unia svizzera.

Io sono scesa in piazza con il cappello rosa a forma di gatto in testa. Ne ho uno che mi ha regalato una collaboratrice e io ne ho realizzato un altro per mio marito, perché trovo importante che gli uomini siano sensibilizzati sulle problematiche femminili. Dopo vent’anni sono tornata a prendere in mano ferri e lana e ho cominciato a creare cappellini anche per i miei familiari.

Sferruzzare, un atto di resistenza secondo molte, ma c’è davvero qualcosa di progressista nel lavorare a maglia e come aiuta la lotta delle donne?

Chiara Saraceno: No, non ci vedo nulla di rivoluzionario. Sferruzzare semmai può essere rilassante ma non rivoluzionario. Ma per una generazione giovane di donne può essere la ripresa di un’ antica arte femminile, utilizzandola non per fornire i calzini a tutta la famiglia, ma per farne una bandiera di protesta. In questo senso può essere un gesto non rivoluzionario, ma sicuramente di rottura.

Vania Alleva: È un atto sicuramente progressista se si guarda la storia. Le prime donne che aderirono alla Rivoluzione francese erano anche coloro che assistevano alle decapitazioni facendo la maglia. Sferruzzare non è dunque un atto che rimanda per forza all’immagine della donna angelo del focolare. Dipende da quali contenuti si riempie questo “atto”. Questo movimento femminile vuole mostrare in maniera umoristica che anche la maglia può essere un simbolo liberatorio, il segno di un impegno per la lotta dei diritti delle donne.

Secondo voi il pussyhatproject segna l’inizio di un nuovo movimento femminista?

Chiara Saraceno: La cosa interessante è che si tratta di un movimento che resiste. Inoltre, come il movimento degli anni ’70 è internazionale, inclusivo e multiculturale. Pensavamo che il femminismo fosse morto, e invece sta risorgendo cercando di rispondere ai problemi e agli stimoli del momento.

Vania Alleva: Io spero di sì. Se guardo alle donne anche molto giovani che si stanno mobilitando oggi, ma anche per manifestazioni che si terranno nelle prossime settimane, mi rendo conto che il movimento Pussy-hat Project, con le sue marce globali possa dare da leva per la presa di coscienza politica delle nuove generazioni.

Annamaria Valenti

RG delle 18.30 dell'08.03.17; il servizio di Annamaria Valenti

RSI Svizzera 08.03.2017, 20:19

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