Plusvalore

C'è poco da festeggiare

di Silvano Toppi

  • 27 April 2017, 12:20
C'è poco da festeggiare
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Giovedì 27 aprile 2017 alle 12:20

Tra poco festeggeremo il lavoro. C’è poco da festeggiare, dicevano ieri i sindacati in una conferenza stampa. Uno studio inglese tentava qualche tempo fa di misurare il “ristorno sociale su investimento” di alcune occupazioni, in funzione del loro effetto sulla collettività. Si dimostrava, ad esempio, che ogni franco di salario investito in una donna delle pulizie in un ospedale moltiplica per 13 il valore sociale del suo lavoro, a causa, soprattutto, del suo apporto nella riduzione delle infezioni nosocomiali. Una docente di un asilo nido, per l’educazione ai bambini e il tempo lasciato libero ai genitori, rende alla società 9,53 volte ciò che costa come salario. All’opposto di questi esempi, invece, il pubblicitario, per ogni franco di valore che produce, ne distrugge 14,8: la sua attività cresce senz’altro il consumo e quindi l’occupazione, ma genera indebitamento, obesità, inquinamento, spreco di energia, impoverimento dei nostri spazi di vita.

Si può discutere su questi calcoli. Inducono perlomeno a considerare sia il lavoro sia il suo costo (il salario) in modo diverso. Il lavoro, se ci pensiamo bene, ha tre dimensioni. Una è soggettiva: è il lavoro realizzato da persone, secondo la loro capacità, formazione, dignità. Un’altra è oggettiva, nel senso che il lavoro produce qualcosa di nuovo, un oggetto, un servizio, che entrano nella circolazione economica. Una terza è collettiva, perché ogni lavoro, benché individuale, si combina sempre con quello di altri e comporta o lascia un effetto sociale sulla comunità. È ciò che voleva far capire quell’inchiesta inglese: investi tanto in salario (costo del lavoro), hai una resa sociale, collettiva, di questa entità. Alle volte la resa sociale è di molto superiore al salario investito e capita perlopiù, quasi paradossalmente, nei servizi meno retribuiti.

Negli ultimi trent’anni l’ideologia e la pratica economica imperanti hanno giostrato con quelle tre dimensioni, rompendone l’equilibrio. Del lavoro si è ipertrofizzata la dimensione oggettiva. Si identifica il valore che produce il lavoro solamente nella quantità di oggetti o servizi realizzati. Non è solo la ricerca della produttività (ottenere cioè maggior produzione per unità o ora lavorativa), ma è il produttivismo che, in poche parole, è lo sfruttamento della risorsa umana (che si traduce poi nella crescente demoralizzazione dei salariati, della salute sul lavoro, nei rischi psicosociali elevati). In tal modo le dimensioni soggettiva e collettiva del lavoro si sono atrofizzate. La dimensione soggettiva perché il lavoro è diventato solo un costo. Se quindi non entra nel calcolo finanziario ed esce dagli obiettivi prefissati (di profitto, di dividendo) è sempre il primo costo da far saltare, o licenziando, o flessibilizzando, o precarizzando. La dimensione collettiva perché finisce o per essere scoraggiata, individualizzando lavoro e retribuzione (spesso in funzione dei risultati quantitativi) o, riducendo il lavoro solo a un costo da comprimere, ignorandone l’importanza del suo effetto moltiplicatore sociale-morale di bene comune per la società.

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