Plusvalore

La politica industriale della Repubblica Popolare Cinese

di Fabrizio Zilibotti

  • 30 aprile 2015, 14:20
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Operaio cinese

Plusvalore 30.04.15

Plusvalore 30.04.2015, 14:20

A 35 anni dall’inizio delle riforme economiche in Cina, il dibattito rimane aperto su quali siano state le scintille che hanno acceso il motore dello sviluppo economico nel paese più popolato del mondo. Nel 1978 la Cina era uno dei paese più poveri del pianeta, con un reddito pro-capite più basso di quello di paesi oggi ben più poveri come India o Nigeria. Nel 2015, la Cina è un paese emergente con un reddito medio comparabile a quello di paesi come Brasile, Turchia e Serbia. Il reddito pro-capite è al livello dei paesi occidentali nelle aree urbane più sviluppate.

Non vi è dubbio che la trasformazione graduale da economia socialista pianificata ad economia di mercato abbia avuto un ruolo essenziale. Altrove, tuttavia, la liberalizzazione economica ha prodotto risultati meno eclatanti. Il processo di liberalizzazione cinese ha caratteristiche molto peculiari. La presenza dello Stato nell’economia rimane tuttoggi profonda, ed il processo di privatizzazione ha subito un rallentatamento negli ultimi 10 anni.

In uno studio recente da me condotto presso l’Università di Zurigo, in collaborazione con due giovani ricercatori rispettivamente svizzeri e cinesi (Simon Alder e Lin Shao) valutiamo l’effetto di uno dei cardini della politica industriale regionale cinese, le cosiddette Zone Economiche Speciali. Fin dal lontano 1980, diverse città costiere furono designate come zone speciali, tra esse Shenzhen, nella provincia di Guangdong, uno dei simboli del miracolo economico cinese. A partire da allora, l’esperimento fu allargato a macchia d’olio, coinvolgendo le remote regioni interne del paese. Le zone hanno goduto di politiche economiche speciali quali esenzioni fiscali, sussidi agli investimenti, condizioni favorevoli alle imprese a capitale straniero, ed incentivi all’adozione di nuove tecnologie. Le città interessate hanno inoltre di un’autonomia legislativa superiore a quella di altre città.

L’introduzione della politica ha generato un’accelerazione della crescita. Le città interessate si assestano dopo alcuni anni ad un livello di reddito pro-capite più alto di circa il 20% rispetto ad altre città con caratteristiche simili. Le zone speciali conseguono un maggiore tasso di innovazione tecnologica, ed una maggiore scolarizzazione della popolazione. Secondo gli scettici, queste politiche favorirebbero il successo delle zone designate a scapito delle zone limitrofe. I dati dimostrano il contrario: le città vicine a quelle che ospitano zone speciali si sono beneficiate piuttosto che avere sofferto del successo delle zone stesse. Lo sviluppo economico diminuisce all’aumentare della distanza dalle zone speciali. In altre parole, le zone hanno operato come volano della crecita industriale piuttosto che come mero strumento di redistribuzione regionale.

Non sempre le politiche regionali funzionano. La Cassa per il Mezzogiorno italiana, per esempio, è stato un fallimento. Parte per come è stata concepita. Parte perchè le politiche che funzionano nelle fasi precoci del processo di industrializzazione sono spesso inadeguate per economie prossime alla frontiera tecnologica. La lezione vale anche per la Cina odierna: ora che ha raggiunto il livello di reddito di un paese a reddito medio, la Cina rischia di vedere esaurirsi la spinta propulsiva della prima generazione di riforme. Una nuova stagione di riforme è necessaria, principalmente nel settore finanziario ed in quello dei servizi, se il paese vuole evitare un significativo rallentamento della crescita economica.

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