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L’etica e l’etichetta

di Silvano Toppi

  • 27 novembre 2014, 13:20
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Proteste in Spagna, sul cartello "Le banche non hanno etica e morale, la policica: complice"

  • Keystone

Plusvalore 27.11.14

Lo studio apparso sul settimanale «Nature» che porta il titolo, in inglese, «Cultura aziendale e disonestà nell’industria bancaria», redatto da tre economisti dell’Istituto di economia politica dell’Università di Zurigo, ha suscitato reazione nel settore interessato, qualche rilievo sulla stampa, poco interesse tra i politici. Merita invece attenzione, fosse solo per un’affermazione da cui prende le mosse (l’onestà è a lungo andare una componente essenziale della «performance» di ogni azienda, industria o paese) o per una constatazione irrefutabile (numerosi sono stati gli scandali fraudolenti nel mondo bancario-finanziario).

Prescindiamo dal metodo. Stiamo alla sostanza. Rileviamone tre considerazioni: nel mondo nella finanza le maglie dell’etica si sono molto allargate, lasciando sempre più campo a comportamenti disonesti; non si tratta solo di riaffermare delle regole di comportamento, bisogna riorientare alcuni attuali incentivi legati solo al profitto verso fattori immateriali, come l’onestà; si dovrebbe instaurare nel mondo bancario un impegno etico, una sorta di giuramento di Ippocrate, come avviene per i medici.

Dite, in sostanza, che nel settore bancario i comportamenti disonesti sono tollerati; che le regole interne servono a poco, sovrastate o annientate, come si è visto più volte, dalla logica perversa della competitività e della ricerca del maggior profitto o del miglior bonus; che il comportamento etico non è incorporato nella banca, non può neppure essere un optional da tirar fuori quando fa comodo, ma esige un giudice esterno (anche se qui si riduce in un giuramento tipo Ippocrate), ed è ovvio che l’Associazione dei banchieri, degli impiegati di banca, degli economisti organici reagiscono, protestano, ridicolizzano o sostengono che «lo studio riflette la cultura bancaria anglosassone , non quella svizzera.

Rimane sempre la domanda fondamentale: si può introdurre l’etica in una riforma resasi necessaria del sistema bancario? Si era tentato di dare una risposta parziale dopo lo scoppio della crisi finanziaria e dei vari scandali bancari proponendo una separazione netta tra l’ attività di credito (quella utile all’economia reale) e quella di speculazione, lasciando l’etica alla prima. Era quindi implicita l’ammissione che pretendere di risolvere i problemi della finanza con una regolamentazione, con lo scopo di eliminare le attività moralmente inaccettabili, era opera inaffrontabile, da abbandonare. Com’è stato.

Quando però gli studiosi di Zurigo parlano di «cultura della banca» e gli stessi banchieri rispondono che loro non hanno la «cultura di banca anglossassone», forse ammettono implicitamente che moralizzare delle attività significa soprattutto strutturare le istituzioni che le svolgono creando perlomeno un ambiente favorevole all’«agire morale». E’ proprio quanto è stato catastroficamente annientato a partire dagli anni Ottanta facendo dell’etica un’etichetta. Sempre per il maggior profitto.

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