Letteratura

Giovanni Arpino

La vita è stile o errore

  • 28 July 2022, 08:17
  • 14 September 2023, 07:19
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Di: Mattia Mantovani

Verrà forse un tempo in cui l’editoria italiana lo riscoprirà, con doveroso quanto colpevole ritardo, ma a poco meno di un secolo dalla nascita e a trentacinque anni dalla morte (originario di Bra nelle Langhe, era nato a Pola nel 1927 ed è morto nell’odiamata Torino nel 1987), Giovanni Arpino è ricordato quasi esclusivamente come cronista sportivo e autore del romanzo “calcistico” “Azzurro tenebra”, uscito nel 1977, nel quale aveva fornito una lettura in chiave sociologica e perfino antropologica dell’eliminazione della Nazionale italiana di calcio ai Mondiali di Germania del 1974.

Una sconfitta, o per meglio dire una disfatta -causata principalmente dalle assurde pressioni di una stampa ideologizzata e da uno spogliatoio litigioso e diviso in fazioni- letta e interpretata dal protagonista “Arp” alias Arpino come la disfatta di un intero paese perennemente diviso in conventicole e corporazioni, divorato dal cancro del trasformismo, costantemente tentato dall’avvento del taumaturgo e dell’uomo forte e strutturalmente incapace di un autentico e compiuto sviluppo civile e democratico.

Un romanzo attualissimo, tra l’altro, perché in quasi mezzo secolo non è cambiato nulla, se non in peggio. Oggi più che mai meriterebbero quindi una profonda e sincera riflessione le profetiche considerazioni che lo stesso Arpino aveva svolto pochi anni dopo, nel 1979, a proposito della difficoltà di pensare l’Italia in termini progettuali e dell’impossibilità di rivolgerle un “buongiorno” da intendersi anche e soprattutto come auspicio: «Perché è stata punita la nostra innocenza, è stata ingrigita la nostra freschezza, è stata ricattata la nostra ingenuità, è stato ghigliottinato il nostro buonvolere. In un secolo che continua a ribaltarsi così amaramente, che nel giro di pochi anni -dieci, cento volte- smentisce ogni teoria strategica o economica o conviviale, un uomo è un uomo se resta semplicemente un uomo. Il resto è chiacchiera sociologica. Ma colloquiare con questa Italia diventa arduo, e scabroso, perché l’innocente, oggi, è considerato un rompiscatole, ed un onesto che fa i fatti suoi rischia di venir guardato come lo scemo del villaggio». Un anno dopo, nel 1980, Arpino diede forma narrativa a queste considerazioni in quello che rimane non solo il più torinese, ma anche il più amaro e disilluso dei suoi romanzi, “Il fratello italiano”, che sullo sfondo di una Torino lugubre e “robotica”, come la definirà poi l’autore stesso, narra la vicenda del torinese Botero e del meridionale Cardoso, simboli delle “due Italie” che si uniscono per arginare, squartandolo e quindi squartando sé stesse, lo «squartamento della vita», che si rivela alla fine nient’altro che «un suono tra tanto morire».

Il resto della sua vastissima produzione, per quanto parzialmente raccolto in un volume dei “Meridiani” Mondadori uscito nell’ormai lontano 2005, è poco letto e poco conosciuto. Le edizioni minimum fax hanno pubblicato per la prima volta in volume le “Lettere scontrose” e riproposto alcuni titoli (l’esordio molto “alla Hemingway” del 1952 con “Sei stato felice, Giovanni” e due pannelli della cosiddetta “trilogia fantastica” degli anni Settanta, “Domingo il favoloso” e “Randagio è l’eroe”), l’editore Lindau ha riproposto tra l’altro “L’ombra delle colline”, che vinse il Premio Strega nel 1964, qualcosa di tanto in tanto appare nella “Bur” Rizzoli, ma nel complesso c’è il forte rischio che Arpino esca dalla memoria letteraria e vada ad infoltire la schiera degli scrittori italiani della seconda metà del Novecento ingiustamente e inspiegabilmente dimenticati. A poco, tutto sommato, hanno contribuito anche i film tratti dai suoi romanzi, sia “Profumo di donna” (Da “Il buio e il miele”, del 1969), sia “Anima persa” (da “Un’anima persa”, del 1966), entrambi interpretati da Vittorio Gassman. Di “Profumo di donna” esiste anche un celebre (ma molto libero) remake americano del 1992, “Scent of a Woman”, con Al Pacino.

Tra le opere assolutamente da riproporre e far conoscere alle generazioni più giovani, oltre all’ultimo romanzo pubblicato in vita, “Passo d’addio”, lucidissima quanto amarissima riflessione sul senso del morire e quindi del vivere, con lo straordinario incipit «La vita è stile o errore», ci sono anche i “Fogli segreti”, gli articoli che Arpino aveva scritto per “Azione” dal 1984 a poco prima di morire e che rappresentano un’ideale continuazione delle “Lettere scontrose” della metà degli anni Sessanta.

«Forse potremmo essere contenti così come siamo, se non sapessimo ciò che siamo stati», dice uno splendido passo de “L’ombra delle colline”, che insieme al già ricordato «La vita è stile o errore» può essere interpretato come la cifra più autentica della poetica di Arpino e del «metafisico sconforto» che si può trovare un po’ ovunque nella sua opera, variamente declinato ma sempre con esiti di grandissimo impatto e suggestione.

Lo stesso Arpino, che in una delle “Lettere scontrose” lo aveva anche definito «il dolce strazio», ha spiegato con estrema chiarezza cosa si debba intendere per “metafisico sconforto”: «E’ quanto più o meno succede a tutti noi, che abbiamo definito “stupido” il secolo precedente e non abbiamo idea dell’aggettivo infamante con cui verrà definito questo nostro secolo. Ma la nostra attuale rabbia è priva di alcun residuo di pietà, è più fisiologica che ideologica. La morte più atroce ci vede spettatori indifferenti, il dolore dell’uomo diventa oggetto di mercato, nient’altro che una notizia di giornale, e forse è vero, o si sta verificando, che dopo le grandi stagioni del Paganesimo e del Cristianesimo nasce oggi, per citare Flaubert, la stagione del Cretinismo».

Il riferimento all’amatissimo Flaubert è molto rivelatore, perché anche per Arpino è lo stile che dà forma alla vita («La vita è stile o errore», appunto) e la rende più umana o meno disumana, più degna di essere vissuta malgrado tutto, malgrado un mondo, come si dice in un passo di “Randagio è l’eroe”, fatto di «innumeri brandelli e segmenti e mozziconi di un infinito polipo frantumato da accette divine. Ogni brandello isterico e solo nelle sue convulsioni. Piena la strada, piena la città, forse ogni immaginabile angolo». Lo stile, in questo senso, è anche «l’idea» intesa come «ultimo approdo contro la nostra realtà così putrida» e contro la tentazione, «nella miseria di questa nostra stagione velenosa», di «ridicolizzare lo specchio che non si è in grado di reggere».

«Cos’è il male? E’ il cuore ignorante», dice nell’omonimo romanzo Domingo il favoloso, che risponde con eroico e picaresco disincanto al disincanto di un mondo che si sgretola, in un’«aria di vetro»: «Quando hai capito questo, i subbugli del mondo faranno pietà ma anche ridere, nessuna rete t’impiglierà, nessun tesoro ti comprerà, nessuna bufera farà tremare la tua radice». Giovanni Arpino merita una seria riscoperta, perché sarebbe necessario custodire con estrema cura la sua verità umana e poetica. Per il valore letterario, per l’altissima qualità di scrittura -Arpino scriveva in un italiano ricco di preziosità lessicali, una lingua pastosa e insieme di squisita limpidezza- ma anche perché le sue opere, come poche altre nel Novecento non solo italiano, contengono una forza flaubertiana dello “stile” che può (potrebbe) aiutare a individuare l’“errore” -il “cuore ignorante”- e quindi a evitarlo. Una forza che davvero non si può descrivere meglio di quanto abbia fatto lo stesso Arpino in un passo di “Randagio è l’eroe”: «La forza viva iniettata in ogni giorno per un campare che significhi qualcosa più in là del ventre e del sonno. E la fede nel riscatto che onestà pudore rispetto umani dovranno pur concedere. O dovrebbero, nel mistero che siamo».

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