Arte

Tadeusz Kantor, il carrozzone del povero

La sua peculiarità era quella di essere sempre in scena, accanto all'azione in corso, quasi a seguirne l'andamento e a sottolinearne la natura non "teatrale", ma concreta come un atto

  • 6 aprile, 00:00
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Di: Daniele Bernardi

Ciarpame. È questa la prima parola che si affaccia da quello sbiadito buco di serratura che sono i documenti se oggi si guarda all'opera pittorico-teatrale di Tadeus Kantor (nato il 6 aprile 1915 a Wielopole e morto a Cracovia nel 1990). E subito ne segue un'altra, da lui stesso menzionata più volte: baraccone.

Infatti, prima del teatro grotowskiano così come del movimento artistico torinese, Kantor fa sua l'idea di povertà. Ma non è attraverso «ricerche dettagliate sul rapporto pubblico-attore» o col mero utilizzo di determinati materiali che questa emerge nella sua ricerca. Come ha scritto Gillo Dorfles, sulle tele e sui suoi palcoscenici traballanti essa corrisponde invece ai «ricordi infantili e all'effettiva situazione in cui il suo Paese si trovava». Non, quindi, una «tecnica scenica» né il frutto di un concettualismo elitario, ma l'espressione poetica di una memoria.

Ora che artisti, o sedicenti tali, amano avvalersi di termini quali «spendibilità, competitività, produttività» viene da chiedersi come il cosiddetto "establishment culturale" accoglierebbe, oggi, una figura assimilabile a quella di Kantor (o a moltissime altre, considerate ormai dei «classici»).

La domanda sorge, soprattutto, rileggendo negli scritti della metà degli anni Cinquanta le pagine in cui afferma la propria opposizione a quel teatro che «rinunciando alla legge della sua esistenza artistica, ha dovuto sottomettersi alle condizioni, alle leggi e alle convenzioni della vita per mutarsi in istituzione, in macchina amministrativa e tecnica che lavora secondo metodi convenzionali rigidi, in vista di una produzione in serie». La risposta rischia di essere banale: non la accoglierebbe o la terrebbe a debita distanza, poiché una parte importante di chi opera in questo campo non è neppure cosciente della propria strutturale adesione a tale rinuncia.

Formatosi negli anni Trenta all'Accademia di Belle Arti di Cracovia, Kantor non disgiunse mai l'attività visivo-plastica da quella scenica e ciò, racconta nel suo bellissimo La mia opera, il mio viaggio (Federico Motta Editore, 1991), suscitò addirittura «dubbi sulla serietà della sua pittura». Tale scelta non nasceva certo dallo sfizio di fare del teatro un «campo di applicazione di effetti pittorici» (niente ai suoi occhi era più pericoloso delle «false avanguardie e di coloro che se ne nutrono»», afferma Denis Bablet), ma da un richiamo che gli imponeva di «violare le frontiere» in nome delle necessità espressive dell'opera.

Tadeusz Kantor, Obraz metaforyczny IV, 1950

In seguito all'occupazione della Polonia da parte della Germania nazista, dal 1942 al 1944 si calò nel «sottosuolo» della creazione illegale, e con altri giovani pittori animò un Teatro sperimentale clandestino indipendente i cui spettacoli andavano in scena nel salone di un appartamento. Anche se il suo lavoro si sviluppò ancora, fu un'epoca decisiva e in quello che è considerato il suo primo scritto teorico si trova chiaramente la radice del suo agire futuro: «Ci si assume una grossa responsabilità entrando a teatro. Non ci si può ritirare. Ci attendono delle peripezie alle quali non possiamo sfuggire. Il teatro non deve dare l'illusione della realtà contenuta nel dramma. (...) Lo scopo non è creare sulla scena l'illusione (lontana, senza pericolo), ma una realtà concreta quanto la sala».

Arrivarono gli anni dello stalinismo, e dopo un lungo periodo nel quale si era dedicato all'attività di scenografo, pittore e costumista, nel 1955, con la fondazione del Teatro Cricot 2, Kantor intraprese un cammino volto a materializzare la concretezza evocata nel suo primo manifesto. In completo contrasto con le logiche dei teatri ufficiali, il gruppo comprendeva professionisti ma pure attori che non lo erano, così come artisti, poeti e intellettuali (viene da pensare alla non dissimile mescolanza che partecipò al cinema pasoliniano). Compagna di viaggio di questo fragile carrozzone era la violenta opera di Stanisław I. Witkiewicz – con Gombrowicz e Schulz fra i massimi scrittori polacchi del Novecento.

Tra il 1955 e il 1973 il Cricot 2 lavorò su pièces quali La piovra, Una tranquilla dimora di campagna, Il pazzo e la monaca, La gallinella acquatica, I calzolai e Le bellocce e i cercopitechi. Per Kantor, il cui credo era «il teatro non è un apparecchio per riprodurre la letteratura», Witkiewicz non rappresentava una drammaturgia a cui sottomettersi, ma un elemento capace di scatenare un processo scenico. Ed è seguendo con cura l'andamento di tale processo che, gradualmente, l'artista può arrivare alla creazione di un materiale dalla forza autonoma.

Dopo anni in cui, oltre agli spettacoli, creò i suoi noti «imballaggi» (opere in cui appaiono involti, buste, sacchi, borse, zaini dal contenuto segreto), scrisse i suoi "manifesti", imbastì happening ed esposizioni (o anti-esposizioni), nel 1975 realizzò la suo lavoro più determinante: La classe morta.

«Seduta drammatica» priva di storia il cui svolgimento sfiorava, in minima parte, il Tumore cervicale del già citato Witkiewicz, lo spettacolo vedeva i membri del Cricot 2 seduti ai banchi di una dimenticata aula scolastica. Ognuno aveva con sé un fantoccio nelle cui fattezze si indovinavano i tratti del bambino che era stato. Seguiva un alternarsi di parate grottesche e malinconiche, di interrogazioni e di tafferugli, di accatastamenti di libri e di apparizioni di rudimentali marchingegni. Esseri fantasmatici, clangori e borbottii davano vita all'immagine assoluta dell'infanzia morta, del luogo perduto che, proprio perché è perduto, è eternamente presente.

Tadeusz Kantor

Evento fra i più importanti del Novecento teatrale, La classe morta ebbe numerosissime rappresentazioni in tutto il mondo, imponendo Tadeusz Kantor come una delle più radicali e profonde personalità del suo tempo. Nei lavori successivi – Wielopole-Wielopole (1980) o Crepino gli artisti (1985) – tornarono ancora elementi del medesimo immaginario, come resti emersi da profondità arcaiche: gli scalcinati soldati, i religiosi, le prostitute. Una sorta di mondo nero, malinconico e crudele, popolato da figure e cianfrusaglie in perenne agitazione.

E Kantor stesso era una delle icone che popolavano questi luoghi. Infatti, come molti sapranno, una delle sue peculiarità era quella di essere sempre in scena, accanto all'azione in corso, quasi a seguirne l'andamento e a sottolinearne la natura non "teatrale", ma concreta come un atto. Quando nel dicembre del 1990 morì improvvisamente dopo aver diretto la prova generale di Aujord'hui c'est mon anniversaire, sul palco fu posta una sedia vuota – uno di quegli oggetti di «rango inferiore» che amava tanto – a marcare il suo passaggio «attraverso la porta che si chiama morte».

Si era realizzata la profezia annunciata da un suo bellissimo dipinto del 1988 che lo vedeva disteso su un letto d'obitorio: «da questo quadro non uscirò più».

Il teatro di Tadeusz Kantor (1915-1990)

Geronimo 03.12.2010, 01:00

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