Letteratura

Mario Tobino

Nessuno sa nulla

  • 16 January, 10:23
  • LETTERATURA
  • CULTURA
Mario Tobino
Di: Mattia Mantovani

Cosa rimane? Qual è la sua più autentica eredità? Sono domande che è giusto porsi in occasione degli anniversari tondi della nascita e della morte dei grandi scrittori, se non altro per riposizionare la loro opera e tracciare nuovi confini all’interno dei quali comprenderla e valutarla.

Incontro con Mario Tobino

RSI Protagonisti 16.03.2016, 11:04

Come in ogni grande scrittore, anche in Tobino -che è stato l’ultimo consapevole esponente della gloriosa tradizione letteraria toscana, un narratore puro, con uno stile ricercato e sorvegliatissimo, ma insieme arioso e di squisita e pastosa limpidezza- c’è infatti una frase che riassume e spiega il senso di tutta l’opera. Nel caso di altri scrittori, la frase che riassume e spiega tutto è solitamente contenuta nelle opere più importanti, oppure in passi particolarmente significativi dell’epistolario, che talora esprimono autentici principi poetici.

Nel caso di Tobino (nato il 16 gennaio 1910 e morto l’11 dicembre 1991), al contrario, la frase decisiva è contenuta con ogni evidenza in un’opera apparentemente minore e comunque non paragonabile ai libri che hanno fatto del medico e scrittore toscano -viareggino di origine e lucchese d’adozione- una delle grandi figure del Novecento letterario italiano. Ma è una frase davvero dirimente, dotata di un valore assoluto, che contiene il senso più profondo di tutta la sua produzione. L’opera in questione, uscita originariamente nel 1954 e ripubblicata postuma nel 1995, si intitola “Due italiani a Parigi” ed è il resoconto, molto divertito e scanzonato, talora perfino frivolo, di un soggiorno dello stesso Tobino e Paola Olivetti (la compagna di una vita, “Giovanna” nella finzione letteraria) nella capitale francese.

A un certo punto, descrivendo l’ambiente di Rue Blondel, nei pressi della porta di Saint-Denis, Tobino scrive che si tratta di «una strada vista in sogno, una strada inspiegabile ma reale; come non si sa nulla della nostra vita, che pure c’è». Non si sa nulla della vita, che pure c’è: tutta l’opera letteraria di Tobino e la sua pluridecennale attività come psichiatra nel manicomio di Maggiano (Magliano, nella reinvenzione letteraria) nei pressi di Lucca, ruotano intorno a questa verità di fondo.

E’ una verità che vale non solo per i cosiddetti “matti”, che lo psichiatra Tobino ha curato con umana comprensione e rigoroso ma anche scettico e dubitoso utilizzo degli strumenti della scienza medica, e che lo scrittore Tobino ha eternato in libri come “Le libere donne di Magliano”, del 1953, “Per le antiche scale”, del 1972 (dal quale Mauro Bolognini trasse l’omonimo film con Marcello Mastroianni), e “Gli ultimi giorni di Magliano”, del 1982

E’ piuttosto una verità che vale per tutti, forse l’unica verità vera di questo basso mondo, perché nei libri di Tobino nessuno sa nulla, a partire dallo stesso Tobino, il giovane “figlio del farmacista” (è il titolo del suo primo romanzo, scritto nel 1938 e pubblicato nel 1942) che tra il 1940 e il 1941, durante la seconda guerra mondiale, è in Africa come sottufficiale medico e tiene un diario nel quale registra tutto quanto gli capita sotto gli occhi. E’ lo snodo decisivo della sua vita, da cui prendono spunto il “Deserto della Libia”, uscito nel 1952 (Mario Monicelli ne ha tratto nel 2006 “Le rose del deserto”, il suo ultimo film), e il romanzo “Il perduto amore”, del 1978.

I ventuno segmenti narrativi che compongono il “Deserto della Libia” si uniscono infatti a formare il quadro desolato e avvilente di una delle tante, troppe “generazioni perdute” della storia (non solo) italiana: giovani e meno giovani, «soldati senza bandiera» mandati allo sbaraglio in una guerra voluta da «una bestiale tirannia», in mezzo a un deserto che nelle pagine di Tobino si trasforma da concreto luogo geografico a cifra simbolica dell’irredimibile tragicommedia umana (un aspetto, quest’ultimo, ripreso e perfino accentuato nel film di Monicelli). Le bellissime righe conclusive, in particolare, consegnano a futura memoria, in una sorta di sospensione paratattica, il “come” dell’intera vicenda: «Quando essere davanti alla morte, sfumare l’odio, ed essere uomini che hanno un destino, e solo quello. Un nobile soldato senza bandiera; non c’è di più triste; e che una bandiera non si può fare».

Non sa nulla “il figlio”, che nel romanzo autobiografico “La brace dei Biassoli”, pubblicato nel 1956, si spinge con ironico e malinconico distacco negli abissi più profondi -insondati, perché insondabili- della memoria familiare; non sanno nulla i marinai viareggini de “L’angelo del Liponard” (il più bel racconto di mare della letteratura italiana, uscito nel 1963), sorpresi da una bonaccia e sospesi in una conradiana linea d’ombra che rende incerto il confine tra istinti e morale, verità elementare della vita e finzioni della società. Allo stesso modo, non sanno nulla i giovani partigiani che in quello che rimane forse il romanzo più bello e artisticamente compiuto di Tobino, “Il clandestino”, del 1962, lottano si sacrificano e muoiono per una libertà sempre più opaca, confusa, differita in una lontananza che sembra infine coincidere col vuoto. Perché una bandiera, come dicono le ultime parole del “Deserto della Libia”, «non si può fare».

Non sanno nulla i due protagonisti di “Un perduto amore” -nulla del loro amore, nulla della vita, nulla del tempo che passa trasforma e deforma- e non sa nulla l’io narrante che nel lungo racconto “Una giornata con Dufenne”, del 1968, incontra i vecchi compagni di scuola: «Sentii che ero venuto, dopo quarant’anni, al collegio per incontrare la morte, l’eterna vincitrice degli uomini, quella che li fa sparire, li cancella, li affida alla memoria di chi rimane».

Ma soprattutto -in maniera definitiva, e con un fortissimo spicco simbolico- non sa nulla (o forse sa tutto) uno dei primi pazienti assistiti in manicomio dal giovane medico Tobino, prima ancora della partenza per l’Africa. La storia è raccontata in uno dei capitoli più belli di “Per le antiche scale”: un federale fascista, all’improvviso, non capisce più «il murmure dell’anonima folla felice della schiavitù», diventa «posseduto dall’impossibilità del concetto», non riesce a «impadronirsi dell’essenza delle cose» e infine nutre la convinzione «che nulla esista». In termini clinici si chiama “delirio sistematizzato di negazione”, ma lo scrittore Tobino vi scorge una verità quasi indicibile e la reinventa letterariamente: «Vedeva le piccole cose che lo circondavano, ma erano prive di anima, come le osservasse in uno specchio che per qualche mistero trattiene l’immagine di ciò che non esiste più», quasi «spettatore di uno sterminato mondo di oggetti che appaiono ma non esistono». Il giovane medico chiede allora al paziente: «E a tutto questo vuoto, lei risponde con un’idea ugualmente immensa, l’immortalità?». Ma la risposta del paziente, come in un gioco di specchi, è lo stessa dell’uomo e scrittore Tobino. Non solo, è la sua poetica, la sua idea della vita come perpetuo esilio da un “dove” indefinito e indefinibile. Ecco perché a trent’anni dalla morte Mario Tobino, medico uomo e scrittore, ci è più che mai vicino. Umanamente e drammaticamente vicino: «Io vedo, parlo, sono qui, sento che nulla esiste. Lo sento, quindi ci sono. Io ci sono e intorno a me c’è il nulla. Anch’io non esisto, sono come morto, ma c’è questa stranezza, questa assurdità, questa condanna: di assistere a questo. E chi mi può togliere da questo stato se nessuno esiste? Se non ci sono gli avvenimenti? Se tutto è soltanto un maledetto cinematografo privo di realtà, di corpi, di sostanza, di oggetti? Non è anche assurdo che nella mia mente si svolgano sequele di fatti, maledetto cinematografo di una vita passata che non c’è stata? Il mondo non esiste. E cosa ricordo? Perché?».

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