Letteratura

L'importante è che sia snello e smart

I nuovi diktat dell'editoria e le loro conseguenze

  • 27 November 2020, 11:00
  • 14 September 2023, 07:26
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libri
Di: Marco Alloni

La potremmo chiamare “sindrome di Giacometti” o “sindrome di Walser”. Ma in verità è una sindrome che risponde assai più a ragioni di ordine economico che di natura estetica. Di cosa stiamo parlando? Riferendoci a questi due giganti, si potrebbe pensare a quella che è stata definita come poetica del rimpicciolimento. Sia Giacometti – nelle sue sculture sempre più minute col passare degli anni – sia Walser – nelle sue “microprose” sempre meno decifrabili – perseguirono infatti una sorta di vocazione alla scomparsa, quasi all’autoannientamento.

Ma ciò a cui facciamo riferimento non è tale nobile tensione verso il minimale e l’infinitesimale. Ciò che ci fa parlare di “sindrome di Giacometti” o “sindrome di Walser” è quanto si sta manifestando all’interno dell’editoria italiana: una crescente avversione per le opere corpose, ponderose o semplicemente lunghe e una inclinazione a prediligere, in funzione delle richieste del mercato, i prodotti cosiddetti di “facile fruizione e digestione”. Nel corso degli ultimi anni il processo ha subìto una sorta di standardizzazione: oltre le 250-300 pagine è diventata ormai prassi ritenere un’opera di “difficile commerciabilità”. E tranne trascurabili eccezioni di autori già provvisti di visibilità letteraria – penso tra gli altri ad Albinati, Moresco e De Carlo – è consuetudine presso gli editori rifiutarsi all’azzardo di pubblicazioni “esondanti”.

Analogo approccio si osserva al livello della complessità linguistica e strutturale delle opere, che la pratica del cosiddetto editing ha reso negli anni persino imperativa: ormai è consuetudine rigettare libri – romanzi in primis – a cui faccia difetto una immediatata “fruibilità” e accogliere solo testi che possano conformarsi al “lettorato medio”, con l’evidente effetto di un livellamento verso il basso non solo delle opere ma dello stesso lettorato.

Così ci si chiede se mai oggi, qualora non fossero “difesi” dalla loro aura di “classici”, capolavori come l’Ulisse di Joyce, Guerra e pace di Tolstoj o La recherche di Proust avrebbero mai potuto accedere al privilegio di una pubblicazione. E se opere della fattura di Conversazione nella cattedrale di Vargas Llosa o Underworld di De Lillo potrebbero mai beneficiare di una qualsivoglia considerazione editoriale. Certo, ci sono occasionali e lodevoli eccezioni. Ma di solito concernono autori in traduzione – Murakami, Bolaño, Wallace – e non autoctoni. E di solito costoro guadagnano i riflettori della letteratura nostrana solo a riporto di un successo internazionale.

Perché questa “plastificazione” generalizzata della letteratura – in primo luogo della narrativa – abbia preso corpo è presto detto: perché l’editoria ha in larga parte abdicato al ruolo maieutico che le era proprio fino agli anni Settanta-Ottanta e si è attestata sulle logiche mercantili che, da un trentennio, impongono il loro diktat su ogni forma di prodotto: a prescindere che si tratti di un prodotto culturale o consumistico eo ipso. Risultato: i lettori si stanno assottigliando e l’editoria è ormai allo stremo. Poiché laddove per decenni si è smesso di “educare” alla lettura, si è favorito paradossalmente il fenomeno della massificazione, non già dei lettori, ma dei non lettori.

Per fortuna esistono nicchie che conservano della letteratura un’idea alta, e quanti, come Adelphi fra i pochi “grandi” rimasti – pensiamo alla recente riproposta dell’assai arduo Gadda – non si piegano all’imperativo della quantificazione del prodotto letterario. E forse lasciano ancora sperare che una ripartenza possa prima o poi ridestare una coscienza della letteratura che non sia di semplice consumo.

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