Società

L'inganno della libertà

La riflessione di Giuseppe Berto sulle magnifiche sorti democratiche

  • 31 May 2021, 05:45
  • 14 September 2023, 07:27
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Di: Mattia Mantovani

L’altezza cronologica è situabile tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, quando l’Italia uscita sconfitta e malmessa da un tristo colonialismo da operetta e dal secondo conflitto mondiale sembrava infine avviata verso le “magnifiche sorti” del boom economico e del benessere per tutti, col conseguente paradiso (artificiale, va da sé) del “tenore di vita”. Fu in quel preciso momento che gli osservatori più attenti cominciarono a capire fino a che punto un contesto sociale apparentemente sano, in un momento di rinascita e ricostruzione, fosse già intaccato dal morbo letale del degrado e della decadenza.

Lo ha spiegato in maniera molto pertinente Goffredo Fofi in uno scritto su Lucio Mastronardi, l’autore de “Il maestro di Vigevano”, una delle tante (troppe) vittime del mito della ricchezza: «Una vitalità sorprendente dalla quale, forse, avrebbe potuto nascere un paese migliore, ma che è servita a distruggere più che a costruire. L’Italia non ha più avuto, da allora, “un volto che ci somiglia”, secondo la definizione di Carlo Levi, e ha cominciato ad apparire estranea ai più sensibili e fragili dei suoi abitanti». Tra questi abitanti “sensibili e fragili” figurava anche Giuseppe Berto, nato a Mogliano Veneto nel 1914 e morto nel 1978, dopo anni di volontario esilio “interno” in Calabria, a Capo Vaticano.

Le parole di Carlo Levi ricordate da Fofi esprimono una grande verità, perché è proprio da quel periodo che il volto dell’Italia ha cominciato ad assomigliare sempre meno al volto dei suoi cittadini più attenti e sensibili. Uno di questi, Ennio Flaiano, in occasione del sessantesimo compleanno nel 1970, ha riassunto e rimodellato una simile consapevolezza in una frase che ha il gusto del divertissement e il retrogusto della sentenza: «Non si vive sessant’anni in Italia senza riportare danni più o meno irreparabili».

In quel periodo, infatti, e cioè all’inizio degli anni Settanta, che sarebbero diventati un periodo particolarmente oscuro e irrisolto della sua storia, sei decenni trascorsi in Italia costituivano il momento giusto per tirare le somme, soprattutto perché i sessantenni dell’epoca avevano vissuto tra la giovinezza e l’età adulta anche il ventennio fascista. Non è quindi un caso che Giuseppe Berto, l’autore de “Il male oscuro”, uno dei più grandi romanzi italiani del secondo Novecento (Mario Monicelli ne trasse nel 1989 un bel film con Giancarlo Giannini), si stesse avviando verso la soglia dei sessant’anni quando nel 1971 diede alle stampe un libro sgradevole e urticante, che all’epoca fu in larga parte ignorato e in taluni casi molto criticato.

Il libro, che prendeva spunto dal celebre libello satirico di Jonathan Swift, si intitolava “Modesta proposta per prevenire” ed era stato pubblicato da Rizzoli. Il motivo per cui venne ignorato e criticato è molto semplice, perfino banale: perché non si allineava alle parole d’ordine e ai dettami ideologici che in Italia come altrove, ma soprattutto in Italia (una nazione che per ogni faccenda, dalle canzonette al pallone, dalle sagre rionali a quel poco che rimane dei massimi sistemi, si divide tradizionalmente e sciaguratamente in guelfi e ghibellini), fissavano i temi e le coordinate del dibattito politico e culturale. In questo mezzo secolo, tutto è cambiato ma niente è cambiato, quindi non sorprende che il libro sia progressivamente scivolato nell’oblio, o quasi. Inutile aggiungere che sarebbe assolutamente doveroso riscoprirlo e rileggerlo.

Qual è il “male oscuro” dell’Italia? Berto parte da considerazioni che toccano un nervo scoperto (non solo italiano, a dire il vero): «Il pensiero è del tutto irrilevante per un’esistenza di massa. E la sua libertà può essere benissimo un inganno». L’Italia, a suo modo di vedere, per motivi storici e sociali è uno degli esempi più evidenti di questa libertà rivelatasi un inganno, «non soltanto per colpa di politicanti zotici e carichi di sproporzionato senso di potenza, ma anche per rinuncia del popolo, o almeno della parte più responsabile di esso, ossia di quella che con termine ormai diffamante chiamiamo borghesia. Nel “cupio dissolvi” che ha dominato la borghesia italiana dalla fine della guerra sta il motivo del nostro fallimento democratico».

Da Thomas Mann in poi, la sottolineatura del fallimento della borghesia è una costante della grande cultura europea, ma il “non marxista” e “non fascista” Berto, dalla sua posizione di “impolitico”, la declina all’interno di un quadro tipicamente italiano, mettendola in relazione con la mancanza di una destra liberale e risalendo alla controversa origine dello stato nazionale: «Nel secolo scorso, quando uno sparuto gruppo di borghesi italiani s’era messo in testa di fare del “bel paese là dove il sì suona” uno stato nazionale unitario, vi fu chi osò affermare che l’Italia era “un’espressione geografica”, con questo significando che la penisola poteva anche avere dei bei confini naturali cantati da Dante, ma quanto al resto c’era ben poco da poter mettere ragionevolmente insieme. Ad ogni modo, pur tra contrasti e contrattempi, l’Italia fu fatta, e da espressione geografica si trasformò in espressione retorica».

Il prezzo da pagare è stato ed è tuttora altissimo: «La vuota e compiaciuta celebrazione del nulla o del poco è diventata la nostra costante nazionale. La realtà è la divisione, la mafia, la corruzione, l’inganno, l’avidità, l’ignavia, l’egoismo, il disprezzo, la viltà. La finzione è l’Unità Nazionale, la Giustizia, l’Onestà, la Verità, la Generosità, l’Operosità, la Carità, l’Amore, l’Eroismo e, immancabile, il Rispetto per le Leggi e le Istituzioni.». Ne segue, a stretto filo di logica, un “J’accuse” di rara efficacia, che individua la radice del “male oscuro” italiano del secondo dopoguerra: «Pensavamo di aver raggiunto col fascismo la punta massima della mistificazione nazionale, ma oggi ne dubitiamo, perché i principi del fascismo, a mano a mano che ce ne allontaniamo, appaiono sempre più stupidi e menzogneri, mentre i principi del postfascismo appaiono più menzogneri che stupidi, e infine più disonesti. Dobbiamo preferire il postfascismo per la sola buona ragione che la stupidità è più pericolosa della disonestà. Ma è una scelta amara». “Ne dubitiamo”, scriveva Berto. Nei cinquant’anni che ci separano dalla “Modesta proposta”, quel dubbio si è trasformato in certezza. Come ha scritto Giancarlo Bosetti nell’introduzione all’unica edizione attualmente in commercio, pubblicata da Marsilio quasi venticinque anni fa: «Il lungo viaggio verso il traguardo della normalità democratica non è ancora concluso, e il timore di non farcela mai, dopo ogni ondata di ottimismo, torna a darci un po’ di ansia. E’ sicuro che il giorno in cui la politica diventasse fonte esclusiva di gioia e serenità, le parole di Berto non servirebbero più, forse non sarebbero nemmeno capite. Ma esisterà mai un tal giorno?».

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