Società

Erotica e spirituale

La scuola di domani dovrà guardare indietro di millenni

  • 2 February 2021, 07:58
  • 14 September 2023, 07:26
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John William Waterhouse, Eco e Narciso, 1903
Di: Mattia Cavadini

Non esiste cultura, non esiste educazione, non esiste conoscenza senza un contatto con le grandi tradizioni sapienziali, filosofiche e spirituali dell'antichità. Parola di Karl Jasper, uno degli spiriti più illuminati del Novecento, grande filosofo, il quale affermò che le idee più grandi elaborate dal genere umano risalgono al periodo compreso tra le Upaniṣad (800-300 a.C.) e Plotino (203-270 d.C). In questo millennio l’umanità ha formulato le cose più profonde, dal punto di vista morale, filosofico e spirituale.

E allora perché di questo millennio la scuola, obbligatoria e postobbligatoria, non conserva traccia? Che scuola è una scuola che non menziona mai, nemmeno di striscio, le grandi tradizioni sapienziali, dall’ebraismo al cristianesimo, dall’induismo al buddhismo, dal taoismo ad Omero?

Il pensiero di Karl Jaspers

RSI Dossier 18.06.2019, 10:49

Si badi: qui non si tratta di nostalgia, di reazionarismo o di passatismo, ma di matrici morali, culturali e spirituali di cui le società moderne e contemporanee sono imbevute. Per questo, le riforme scolastiche degli ultimi anni, che hanno posto l’accento sul Novecento, sulla contemporaneità, sono a mio avviso deficitarie. Per capire cosa è avvenuto nel cuore dell’uomo novecentesco, per capire le perversioni che lo hanno alimentato nel corso del secolo della Tecnica, e allo stesso tempo per evitare di considerare i crimini novecenteschi come un semplice inconveniente legato ad un determinato periodo storico, ecco che la lettura della Bhagavadgītā, la lettura dei Profeti, la lettura dell’Odissea, di Lao Tzu, la lettura del discorso della montagna, sono fondamentali.

L'educazione deve tornare ad essere ciò che la sua etimologia vorrebbe: ovvero non una semplice informazione, ma un processo di acculturazione profonda, un “tirar fuori” ciò che è in nuce. Platone usava la parola periagoge, San Paolo quella di metanoia: la vera educazione è una trasformazione, una conversione radicale del nostro modo di essere, di vivere e di pensare. E non deve impattare solo sul nous, sull’aspetto intellettuale, ma deve coinvolgere l’essere. E per coinvolgere l’essere, nella sua totalità, la scuola deve abbandonare quella che Schrödinger, uno dei grandi fisici del Novecento, riprendendo un’immagine del filosofo spagnolo Ortega y Gasset, definì l'idiozia dello specialismo. Questo non significa abbandonare i saperi, le scienze e le specializzazioni, ma significa riconoscere che una scuola in cui ci si appiattisce solo sullo scientismo e sulla contemporaneità, senza fare alcun cenno all'antico Testamento al Taoismo, alle Upaniṣad o all’Odissea è una scuola impoverita.

Questo è, dunque, il lavoro che la scuola deve sapere fare: promuovere una cultura integrata, ricca di elementi transdisciplinari, metadisciplinari, frutto di una cultura olistica. Di un olismo dialettico, basato sulle differenze, non-organicistico (perché la complessità non va ridotta ad uno), ciononostante un olismo capace di fecondare i linguaggi fra di loro, capace di innervare i diversi sapere, i diversi rami della scienza, della cultura e i diversi insegnamenti spirituali.

Ma, mi si obietterà, cosa c’entra lo spirito con la scuola? Beh, c’entra eccome, perché la scuola deve insegnare anche questo: non solo deve trasmettere erudizione e conoscenza, ma deve anche insegnare la meditazione, la contemplazione. E non lo dice solo Paolo di Tarso, vox clamantis in deserto. Nietschze, dal suo osservatorio laico, espresse grossomodo la stessa necessità, quando invitò ad essere come i filosofi del mattino:

Nati dai misteri del mattino, essi meditano come mai il giorno, tra il decimo ed il dodicesimo rintocco di campana, possa avere un volto così puro, così luminoso, così trasfiguratamente sereno: essi cercano la filosofia del mattino. La conoscenza dell’Uno avviene non per mezzo della scienza o del pensiero, come per gli altri oggetti dell’Intelligenza, ma per una presenza immediata superiore al pensiero (Plotino).

Ecco dunque cosa si cela dietro l’insegnamento dei giovani allo spirito: si cela l’invito a stupirsi di fronte al mondo e alle cose, a non passare ottusi di fronte al mistero del reale. "La più bella esperienza che possiamo avere", disse Einstein, "è il mistero. Chi non riesce più a stupirsi, né a meravigliarsi è come se fosse morto". L’educazione dello spirito è in fondo questo: un invito alla contemplazione, un invito al silenzio, all’ozio, una sollecitazione ad accogliere l’altro (dove l’altro è l’albero, la nuvola, la persona che ci transita accanto).

Edgar Morin, uno dei più grandi pensatori laici degli ultimi decenni, epistemologo della complessità, ha sostenuto che la scuola debba riportare i giovani a contatto con il concetto di eros e di anima, e non ridursi a parlare esclusivamente alla mente dei suoi alunni. Opinione condivisa anche dal noto psicologo e filosofo italiano Umberto Galimberti.

Un giorno, mio figlio, di ritorno dal liceo, mi disse: i docenti non hanno sentimenti. Ecco, in questa semplice constatazione, è condensata la riflessione di Edgar Morin attorno alla scuola. Quando Morin invitava la scuola a recuperare la dimensione dell’eros e dell’anima intendeva proprio questo: ovvero che essa non espungesse la dimensione dei sentimenti e dell’affettività, ma che se ne facesse carico. Perché l’essere umano non è solo nous, ma anche anima e spirito.

Nous, psyché e pneuma (mente, anima e spirito): la scuola di domani deve sapere parlare a tutte e tre le componenti dell’essere umano, anche alla più negletta e misconosciuta, ovvero alla componente spirituale, la sola che custodisce un aspetto unitivo (“lo spirito è un solo, tutto in tutti”, 1 Cor 12, 4-6; “Il Brahman è indiviso e puro: in esso non esistono menti separate” Amritabindu Upanishad).

Ma per far questo la scuola deve ripristinare l’insegnamento dei grandi testi sapienziali che hanno segnato la storia dell’umanità, i quali all'unisono insegnano ad essere uno nell'Uno; a dare del tu alla natura; a sentirsi parte di un'unico grande corpo spirituale, a non avere paura della morte.

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