Arte

Ubu, nostro contemporaneo

Quasi una satira

  • 2 febbraio 2021, 12:00
  • 14 settembre 2023, 09:26
Enrico Baj, Ubu, 1985

Enrico Baj, Ubu, 1985

Di: Daniele Bernardi

Dobbiamo essere grati al Presidente degli Stati Uniti di aver involontariamente realizzato, attraverso la sua visita alla Regina Elisabetta, un nuovo capitolo di quella «somma di varianti» che è la saga di Ubu. Dico sul serio, e Alfred Jarry non mi smentirebbe: conoscevamo i drammi Ubu Re, Ubu Cornuto, Ubu incatenato e Ubu sulla collina, ma ancora non sospettavamo dell'esistenza di Ubu in Inghilterra, altrimenti noto come Ubu Trump (a Cesare quel che è di Cesare: l'espressione non è mia, ma di un amico).

Bisogna altresì sentirsi in debito verso il Ministro dell'interno (o delle interiora? Non ricordo) della Repubblica italiana per il suo apporto scenico ai futuri allestimenti di Ubu: mancava, ad oggi, tanta ricchezza di costumi e oggettistica. Chiudo gli occhi e comincio a sognare: già scorgo su di un palcoscenico l'ennesima interpretazione del più sovversivo dei classici del teatro novecentesco da parte di un attorone in divisa che regge, in una mano, un pingue tiramisù mentre con l'altra brandisce un iPhone (colleghi, che stiamo aspettando? Mettiamoci all'opera).

Ma non finisce qui. Che dire di quanto ci ha lasciato l'estro barocco del Colonnello Gheddafi? O, ancora, quello velatamente più sobrio dell'attuale «leader supremo» Kim Jong-un? Non c'è che dire, coi primi decenni del 2000 si è lavorato sodo: mostrine dorate, ammennicoli, copricapi, visiere in stile Judge Dredd e acconciature che farebbero a gara coi più psichedelici ghirigori del compianto Professor Bad Trip. Insomma, un vero bendidio.

Altro che attori e registi, in fondo non dovrebbero esserci dubbi su chi si meriterebbe – o, ahimè, si sarebbe meritato – l'ambito Premio Ubu. O forse qualcuno non sa di che sto parlando? Oibò, corriamo ai ripari: rispieghiamo Ubu, per chi era assente.

È il 1888 quando il geniale quanto indisciplinato Alfred Jarry, allora quindicenne, entra a far parte della classe del professor Félix-Frédéric Hebert, nel liceo di Rennes (dove, fra l'altro, sarà poi allievo di Henri Bergson); sorprendentemente, come scrive Alfredo Giuliani nella sua prefazione alla storica edizione di Ubu dell'Adelphi, il ragazzo ha già alle spalle «un ricco repertorio infantile di commedie in prosa e in versi della più varia ispirazione scolastica e profanatoria». Qui Jarry scopre che da tempo generazioni di scolari si tramandano oralmente e per iscritto esilaranti leggende la cui fonte di ispirazione è proprio monsieur Hebert, pessimo insegnante di fisica dai modi boriosi, magniloquenti, disperatamente dispotici (di fatto il poveretto era letteralmente sottomesso dalla «teppa studentesca») e dall'aspetto innegabilmente ridicolo.

Subito, il futuro ideatore della patafisica fa di Hebert (soprannominato nelle satire locali Padre Eb, Ebée, Ebon...) il bersaglio del suo sarcasmo. Un compagno di scuola descrive in questo modo le caotiche lezioni che, quando il professore tentava di domare la classe con roboanti sermoni, solitamente terminavano con le stoccate di Jarry: «Interveniva sempre alla fine, come un matador entra nell'arena per il colpo di grazia. Silenzio assoluto. Freddo e mordace, poneva domande astruse, insidiose a Père Héb, facendolo vacillare a metà frase e ridicolizzando i suoi modi sentenziosi. (...) Père Héb, sconcertato, sbatteva le palpebre, balbettava, faceva il sordo, perdeva terreno. Infine cedeva, si accasciava sul tavolo, fra storte e apparecchi, inforcava gli occhiali e con la grossa mano tremante scarabocchiava un rapporto per il preside».

Ma il genio di Jarry, poeta, certo non passa alla storia per le sue gesta di scavezzacollo. Quale moderno e bislacco Omero in una pellicola di Jean Vigo – come non rammentare, qui, il bellissimo Zéro de conduite – egli raccoglie quindi la messe di aneddoti, scritti, canovacci, bozzetti e copioni che i compagni hanno elaborato negli anni per dare forma compiuta, attraverso una propria organizzazione del mito caricaturale di Hebert, a una figura destinata a irridere definitivamente l'immagine di qualsivoglia tiranno (o aspirante tale): il burattino di Padre Ubu, appunto.

Chi è costui? Pupazzo a forma di pera con viso da artropode, panciuto esserino sul cui corpo è disegnata un'ampia spirale, Ubu è un chiassoso gradasso che, spinto dalla brama di potere e dai suggerimenti della consorte (Madre Ubu), uccide il proprio sovrano per usurparne il trono e regnare sulla Polonia. Consumato il delitto grazie a un manipolo di adepti, egli esegue poi una serie di esilaranti esecuzioni capitali ai danni di alleati, nobili, finanzieri e magistrati. Orango nella stanza dei bottoni, l'insaziabile riforma infine il paese per incassare, attraverso le più strampalate tassazioni, lauti guadagni. Ma ciò che più caratterizza la sua brama sono i modi con cui questa si esprime: il suo eloquio, infatti, è infarcito di guazzabugli linguistici e sparate tali da rendere improbabili e spassosi i suoi piani. Con Ubu Jarry è stato quindi in grado, da un lato, di fare l'«allegoria della tirannia che l'età adulta esercita su se stessa» (Alastair Brotchie), dall'altro, di parodiare quella che Pasolini abilmente chiamava la folle «anarchia del potere».

Nel nostro mondo gli Ubu non mancano né sono mai mancati e non è un caso che questa splendida invenzione teatrale, dal suo ufficiale debutto nel dicembre del 1896 al Théâtre de l'Oeuvre di Parigi, riscuota ancora successo; negli ultimi anni, ad esempio, in Italia molti si sono confrontati col celebre testo. D'altra parte, come dicevo in apertura, non sono certo gli spunti a scarseggiare. Basta affacciarsi in rete e, ad esempio, leggere titoli come questo: Trump: "Stiamo cercando gli alieni" (Yahoo, sezione «Notizie», 25.06.2019).

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