Letteratura

Nostalgia dei grandi

Se la letteratura non corteggia più l’essenza

  • 11 September 2019, 06:43
  • 31 August 2023, 10:30
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Gabriel Garcia Marquez
Di: Marco Alloni

Ricordo quando ai tempi dell’Università si leggeva Kierkegaard e si andava in estasi al cospetto della sua intuizione: che ogni arte ha il proprio specifico irrinunciabile e che nulla è stato mai tanto esatto, a livello estetico, come l’incontro fra la figura di Don Giovanni e la musica di Mozart.

Perché si andava in estasi? Perché avevamo, da giovani idealisti, la sensazione che all’arte fosse riservata una missione, che l’arte non fosse arbitrio e capriccio ma ascolto di una verità essenziale, da cogliere prima di cominciare a creare e da coltivare poi per sempre.

Intervista allo scrittore, semiologo e filosofo Umberto Eco

RSI Shared Content DME 14.08.2019, 09:00

  • Reuters

Allora resisteva ancora l’idea che fare gli scrittori significasse misurarsi con una materia che non potesse essere individuata e rappresentata se non tramite la letteratura, che in ultima istanza significasse riconoscere prima e coltivare poi per sempre, pur nell’individualità della produzione, lo specifico letterario.

Non scegliere attingendo a curiosità o passioni del tutto contingenti, personalistiche e biecamente soggettive, o a una problematica da tradurre poi in racconto: non decidere per esempio che «sarebbe interessante» narrare di emigrazione dalla Sicilia, di una storia di lesbiche nell’Anatolia settentrionale o di Mussolini da una prospettiva umanizzata. Ma ascoltare il proprio cuore e domandarsi: Quale essenza mi abita, quale ossessione esistenziale irrinunciabile mi domina, alla quale io, in accordo con l’interpretazione del mio tempo, devo dare rappresentazione?

Questa domanda ha impregnato di sé le ossessioni di tutti i grandi della modernità, ma oggi sembra ricadere nella palude degli «idealisti fuori tempo», ignari di quanto l’attualità richieda, nella sua vocazione liquida o liquefatta. Oggi il relativismo ha tracimato oltre i propri limiti e impone che la letteratura sia essenzialmente o eminentemente un’operazione a tema. Non espressione di uno Spirito e tanto meno delle ossessioni ultime di tale Spirito, ma componimento liceale ad alti livelli.

Non si può dunque pensare al passato – e soprattutto al Novecento – se non come a un tempo defunto nelle sue vocazioni più estreme. E non si può pensare al presente, soprattutto al presente della mercantilizzazione dell’arte, se non come a un tempo della rimozione della grandezza. Quindi non si può non chiedersi come mai le lezioni dei grandi – da Svevo a Fortini, per restare in ambito italiano – sembrino essersi convertite in un lascito per nessuno. E perché dall’idea di una letteratura come scandaglio delle profondità di un’anima si sia giunti così disinvoltamente a una letteratura surrogato della sociologia.

Franco Fortini, poeta della resistenza

RSI Notrehistoire 01.03.2018, 00:00

Certo, molti temi dell’attuale produzione letteraria sono degni di nota: il fascismo, il neofascismo, l’antisemitismo, l’emigrazione, le nuove povertà, le periferie in ambasce, la solitudine, i rapporti tra genitori e figli, le discriminazioni razziali e via elencando. Ma ciascuno di questi temi o problematiche sono di norma individuati al modo di uno scandaglio da menu, facile e senza ulteriore problematizzazione. Ci si improvvisa competenti di una determinata materia e la si narrativizza.

I grandi – i defunti abitatori del secolo breve – un simile approccio l’avrebbero rigettato a priori. A loro non importava il «problema», la «questione» dell’amore in quanto libertinismo di Don Giovanni: ma l’essenza dell’amore nelle sue valenze più estreme. A loro non importava quanti e quali migranti provenissero dall’Africa: ma quanta essenza, quanta essenziale essenza fosse nella fatalità della migrazione.

E così via fino ad arrivare alla domanda capitale: Che senso ha, allora, questo tipo di letteratura? Se tale letteratura può disinvoltamente essere rimpiazzata o surclassata dalla saggistica sociologica o politologica, perché impugnare ancora romanzi per dire quel che altre discipline potrebbero dire nel loro specifico assai meglio?

E se non se ne occupa la letteratura, dell’utopia e dell’impossibile, dell’ulteriorità e dello spirito rivoluzionario, se non si occupa la letteratura dell’essenza che alita da qualche parte nel nostro Spirito, chi e cosa deve occuparsene? Oppure dobbiamo pensare che la letteratura è destinata a continuare a essere un altro modo, magari più gradevole, ma meno rivelatore, di fare giornalismo?

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