Società

Arte e visibilità

La storia di una svendita

  • 20 February 2020, 07:44
  • 14 September 2023, 07:26
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Luis Buñuel, Un chien andalou, 1929

Luis Buñuel, Un chien andalou, 1929

Di: Maria Chiara Fornari

Essere visti è arte. La scritta campeggia enorme sulla fiancata di un autobus che mi incrocia mentre, ferma al semaforo, sono immersa a pensare ad un festival di arte canora.

L’idea è affascinante, anche se sembra quasi una sentenza. Ma è così? Davvero essere visti è arte? Rendersi visibili è il frutto di un gesto artistico? Non ne sono così sicura. Anzi, credo che abusare del termine arte non faccia bene alla nostra civiltà, perché squalifica le vere forme di espressione artistica. E poi, ciò che più mi lascia soprattutto perplessa, di quella insegna, è che a propugnarsi come arte sia la pubblicità.

Pasolini ammoniva che la pubblicità è di fatto il frutto di una comunicazione di massa, che non solo asseconda ma impone la subalternità del fruitore, la manipolazione del suo pensiero, ma soprattutto dei suoi bisogni a scopo preminentemente commerciale. L’esatto opposto di quel che, per definizione, è e dovrebbe essere l’arte, in quanto espressione estetica, libera e incondizionata del rapporto fra l’io e il mondo. Intuizione lirica secondo Benedetto Croce, ciò che contiene sia il bello che il sublime, secondo Kant: sono molteplici le definizioni di arte, tutte volte ad evidenziarne il valore estetico, poetico ed incondizionato.

Malgrado lo sforzo di esimi filosofi, poeti, donne e uomini di ogni epoca a tenere distinti i due ambiti, il confine tra prodotto meramente commerciale, pubblicitario, e l’opera d’arte è divenuto vieppiù labile. Lo spazio tra i due concetti si è fatto sempre più sottile, tanto indistinguibile quanto impalpabile.

L’indirizzo in tecniche della comunicazione inserito negli iter universitari alla stessa stregua di storia dell’arte o storia della lingua ha definitivamente sdoganato la comunicazione a scopo commerciale negli atenei, ponendo allo stesso livello la comunicazione artistica e la comunicazione a scopi commerciali.

Che l’arte abbia anche un risvolto commerciale è assodato. Andy Warhol, da abile cantore della società dei consumi, ha sottolineato con le sue opere il lato superficiale ed effimero di una società che si autocelebra e dell’arte ridotta alla stregua degli oggetti che compriamo nei supermercati, di cui consumiamo il contenuto e gettiamo l’involucro. Niente da conservare, se non il gesto della fruizione, il consumo. Nulla a che vedere con opere imperiture come La commedia di Dante o Il matrimonio della vergine di Piero della Francesca

Andy Warhol, Brillo Soap Pads Box, 1969

Andy Warhol, Brillo Soap Pads Box, 1969

L’interesse verso l’arte dimostrato dal mondo della pubblicità e l’attacco da parte del pubblicitario alla creatività artistica è vecchio più del mondo, ma trova, nell’epoca del consumismo massificato, la sua celebrazione in vere e proprie figure professionali come quella dell’
advertising consultant, il professionista della comunicazione che collabora prevalentemente alla realizzazione di pubblicità “above the line”, cioè veicolata da media classici quali televisione e cinema, radio e stampa, affissioni e internet.

Mi ricordo quando sui nostri quotidiani cominciarono ad apparire, una ventina di anni fa, le prime informazioni pubblicitarie in forma di articolo. Avevano un titolo, una foto e un testo in colonne: un aspetto assolutamente identico a quello degli altri articoli, dei corsivi o degli editoriali di grandi autori del mondo delle lettere, storici dell’arte o giornalisti, iscritti ad un ordine professionale (ordine che chiede ai propri affiliati correttezza nel trattare le notizie, rispetto per l’utenza e indipendenza dalla convenienza economica).

Le prime volte ci siamo cascati un po’ tutti, poi abbiamo imparato a guardare in alto a destra dove con un carattere molto piccolo ci veniva indicato che quello non era un articolo ma una Informazione commerciale. Non l’abbiamo capito subito, sebbene Warhol ci avesse avvisati. Poi, però ci siamo accorti che non solo sulle pagine dei giornali, ma anche dentro le università, nei cinema, sui social (Facebook ha goduto di tutto ciò nascendo nel febbraio 2004) un po’ ovunque il professionale, il creativo, l’artistico stavano iniziando a scendere a patti con il commerciale (e in alcuni casi l'intreccio sarebbe divenuto inevitabile e fatale).

Michelangelo, Giudizio_universale (dettaglio)

Michelangelo, Giudizio_universale (dettaglio)

Come detto, è successo un po’ ovunque, ma è evidente che il mimetismo della pubblicità commerciale ha trovato nei social network il proprio terreno privilegiato. Qui l’industria consumistica ha scoperto che attraverso l’arte si può entrare nelle coscienze delle persone e attivare un certo tipo di bisogni, di desideri, in linea con chi ne può trarre non solo un vantaggio economico, ma anche politico (lo scandalo di Cambridge Analytica insegna). E così l’arte ha perso il suo valore originario, frutto di un’urgenza interiore, mirante al bello e al sublime, in totale indipendenza da qualsivoglia beneficio politico o economico, al di sopra delle mode e dei modi, al di là di ogni maniera o delle tendenze dettate da un gruppo egemonico.

Nell’epoca degli sponsor e delle grandi comunicazioni di massa tutto questo è crollato. L’arte denota oggi un asservimento radicale al gusto del target, un appiattimento alle tendenze del mondo della pubblicità, un’inclinazione a finalità spesso commerciali e mediatiche. La creazione è sempre meno libera, e sempre più disposta a sacrificare verità, artisticità ed etica, con buona pace del sublime nell’arte e pure di Kant.

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