Letteratura

Mario Vargas Llosa

Una fabbrica di capolavori realistici

  • Ieri, 23:01
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vargas llosa
Di: Marco Alloni

Considero Mario Vargas Llosa (nato il 28 marzo 1936) il più grande romanziere vivente. A riprova che uno scrittore può essere immenso anche per chi non ne condivide le posizioni politiche. Luis Sepúlveda – che affermava di lui: «Di politica non capisce nulla» – a fronte delle sue opere era obbligato ad aggiungere: «Ma nessuno ha mai saputo scrivere dialoghi come lui».

Vale perciò per l’autore della Conversazione nella Cattedrale quello che vale per Pound, Céline, Nietzsche, D’Annunzio e molti altri: si può essere «di destra», si può persino essere «fascisti», ma laddove l’opera si allea con una insindacabile intelligenza dell’umano la politica, l’orientamento ideologico, passa necessariamente in subordine. Anzi, a ben vedere non conta nulla o quasi nulla.

Come diceva Balzac, sintetizzando secoli di equivoci intorno alla richiesta di coerenza da parte degli scrittori: «Non condivido le opinioni dei miei personaggi». O, come diceva Picasso: «Io prendo gli oggetti e li butto sulla tela: poi si arrangino tra di loro».

In effetti Vargas Llosa è autore superlativo anche – ma non solo – per aver costretto se stesso a obbedire così mimeticamente ai propri temi e ai propri personaggi da non aver mai potuto imporre al lettore una griglia ideologica univoca e undirezionale di interpretazione. Al punto, arriverei a dire, che persino in uno dei suoi massimi capolavori, La festa del Caprone, il protagonista del libro, il dittatore dominicano Trujillo, stigmatizzato nel romanzo per spietatezza e disumanità, riesce a profilarsi in una specificità umana talmente convincente e realistica da riuscire quasi «perdonabile» e a tratti persino «simpatico».

Lo stesso dicasi per quell’altro suo indefettibile capolavoro, La guerra della fine del mondo, che per quanto debitore di Camões, racconta della superstizione, dell’ignoranza, dell’irrazionalità dei «primitivi» delle montagne brasiliane con una umanità talmente empatica da farci qua e là sospettare che lo stesso Vargas Llosa sia vocazionalmente comunista o persino vocazionalmente integralista cristiano (quando, lo sappiamo, non era né una cosa né l’altra).

Questa capacità di collocarsi nelle fibre più intime del racconto al punto da diventare, come narratore onnisciente, tutt’uno con la molteplicità caratteriale e morale dei suoi personaggi, deve d’altronde la sua ragion d’essere anche a un altro tratto peculiare di Vargas Llosa: l’ironia. La quale, lungi dall’essere sberleffo o facile umorismo, è viceversa quel fondamentale distacco narrativo – ovvero, per converso, quel fondamentale spirito narrativo di adesione – che permette di non incombere mai, come Autore, nel racconto in veste di giudice.

Ne sia conferma La zia Julia e lo scribacchino, una delle opere strutturalmente più riuscite, ma soprattutto più rivelatrici di questa capacità di calare il biografismo fuori dalla semplice rievocazione pedissequa del passato. Lì l’ironia, e l’autoironia, ci svelano come Vargas Llosa sia, anche nei confronti della sua personale vicenda di adolescente e di aspirante scrittore, ironicamente spietato.

Questi dati non completano ovviamente l’elenco, sterminato, delle buone ragioni per cui Vargas Llosa possa essere considerato, a prescindere dal Nobel, un gigante del Novecento. Ma ne sono per così dire il precipitato.

A esse andrebbe aggiunta infatti una ineguagliata capacità di calibrare le frasi, di scheggiare in poche pennellate i personaggi, di tenere insieme passato e presente in intrecci al limite del vertiginoso, una capacità estrema di coniugare la Storia con le storie, un impareggiabile dominio del plot e della struttura narrativa d’insieme, una immediatezza di racconto che non cede mai alle lusinghe del narcisismo estetico e via elencando.

Va poi detto che Vargas Llosa non ha mai ripetuto lo stesso libro. E persino in brevi romanzi come Chi ha ucciso Palomino Molero, o nel saggio su Flaubert L’orgia perpetua, o nel romanzo sul colonialismo britannico in Africa Il sogno del Celta, ha sempre spiazzato il lettore. Il quale, conosciuto Vargas Llosa, non può che esclamare: «Questo realismo narrativo è l’espressione della realtà più esatta che mai penna ci abbia regalato. Una vera e propria fabbrica di capolavori».

Mario Vargas Llosa "La zia Julia e lo scribacchino" presentato da Giovanni Medolago

Speciali 24.06.2015, 22:00

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