Arte

Il fiore di Zeami

L'arte di praticare il Nō

  • 4 luglio 2020, 00:00
  • 31 agosto 2023, 10:57
sibyoushi
Di: Daniele Bernardi

Portato alla luce in occidente grazie all'interesse di William Butler Yeats e al pionieristico lavoro di Ernest Fenollosa ed Ezra Pound, il Teatro Nō – una delle più antiche tradizioni sceniche giapponesi – è indissolubilmente legato alla figura di Zeami Motokiyo (1363-1445), più semplicemente noto come Zeami. Figlio d'arte di Kan.ami (attore vissuto tra 1333 e il 1384), benché non sia l'iniziatore del genere è considerato il creatore di una larghissima parte del repertorio drammaturgico ed è autore di una serie di straordinari trattati redatti ad uso esclusivo dei propri discendenti (Il segreto del Teatro Nō, Adelphi, 1966).

Nonostante i parametri nipponici risultino spesso ostici al fruitore occidentale, anche per un teatrante europeo i testi "teorici" di Zeami (ma sarebbe forse più corretto chiamarli "filosofici") contengono, oltre ad un grande fascino, considerazioni estremamente pertinenti per chi, ancora oggi, affronta l'atto performativo; non fu certo un capriccio estetico, in questo senso, l'attenzione che registi-ricercatori quali Peter Brook ed Eugenio Barba diedero a patrimoni culturali lontani.

Arte fondata sulla poesia (Zeami sostiene che ogni attore dovrebbe praticare un poco la scrittura in versi così da poter adattare i testi e da idearne di propri) che vede la piena realizzazione ben al di là della pagina tramite la mimica codificata, i costumi, le maschere, la musica e la danza, il Nō rifiuta il «realismo banale» privilegiando invece «l'interessante, l'insolito». Tale cifra è descritta da Zeami con uno dei concetti portanti e mutevoli del suo discorso "didattico": quello del «fiore».

Idea difficile da afferrare a causa della sua stessa natura, il «fiore» secondo Zeami, per usare una formula dello studioso René Sieffert, è «un epifenomeno che appare di tanto in tanto nella recitazione (...) e che produce nello spettatore un piacere indefinibile, ma certo». È il manifestarsi di uno stato di grazia che permea con l'incanto dell'inatteso l'azione del performer sulla scena; è un mistero di cui non si sa nulla e del quale si subisce il fascino.

Ma quali sono le condizioni che ne determinano il manifestarsi? O, meglio, com'è scritto nelle Osservazioni sotto forma di dialogo, «come si può raggiungere [questa conoscenza]?». Le risposte zen di Zeami naturalmente non si possono riassumere con formule o ricette poiché da un lato si tratta di osservazioni messe per iscritto in periodi diversi, dall'altro di un territorio brumoso, i cui confini si perdono nell'indefinito.

Fra le sue osservazioni c'è però quella che invita a non confondere «il fiore di un momento» (come una voce giovane che incanta per la sua freschezza) col «fiore autentico», che sboccia invece da «uno sforzo cosciente per portare alla perfezione l'insieme del repertorio»; è quest'ultimo infatti «il seme» sul quale l'allievo deve concentrare le proprie forze per raggiungere una «disposizione della mente» che renda possibile il manifestarsi dell'inatteso. Un'altra è quella riguardante il fiore come «materia segreta»: se gli spettatori sapessero cos'è il fiore, sarebbe impossibile per l'interprete risvegliare il senso dell'imprevisto perché, da un certo punto di vista, è l'ignoranza di chi assiste a costituire «il fiore dell'attore».

E infine, considerato che, a causa dell'abitudine, anche un'eccellente opera vista più volte può perdere il suo smalto, Zeami paradossalmente afferma che «il fiore non ha esistenza propria» e che «a meno di non aver penetrato (...) la conoscenza del principio dell'insolito in ogni cosa» esso non si potrà mai possedere.

Questo, che, come già accennato, è un punto-cardine di tutta la filosofia di Zeami, è comunque solo un aspetto del suo insegnamento. In esso si trovano infatti anche le fondamentali considerazioni sullo Jo-ha-kyū – progressione naturale preludio-sviluppo-finale che permea su più "scale" (dal singolo gesto alla struttura di una pièce) la pratica scenica – e quelle sull'importanza dei propri inizi, dei quali si deve sempre mantenere viva la memoria se si vuole affrontare con umiltà le epoche a cui il corpo dell'artista va inevitabilmente incontro.

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