Letteratura

Raymond Carver

L’equivoco del minimalismo

  • 25 maggio 2023, 00:00
  • 31 agosto 2023, 11:15
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Di: Marco Alloni

L’autore a cui è ormai indissolubilmente legato il termine di “minimalismo” è l’americano Raymond Carver. Nessuno che voglia sottrarsi al dubbio gusto di applicare etichette “di genere” agli scrittori si esime infatti dal ricordare con compiaciuta prosopopea: “Carver è il massimo rappresentante della scuola minimalista”. Oppure: “Se c’è un narratore che ha espresso ai più alti livelli la poetica del minimalismo, costui è Carver”.

In effetti le etichette – secondo il famoso insegnamento della propaganda nazista – basta reiterarle per anni e anni e diventano una sorta di stigmate irrecusabile. Di più, nel momento in cui cominciano a diffondere l’alone della paradigmaticità, ovvero dell’oggettività assoluta, sembra quasi profanatorio metterle in discussione o ridimensionarle rispetto alle loro pretese di assolutezza.

Così Carver finisce per essere il minimalista per antonomasia e da questa apodittica o servile obbedienza agli schemi non è più possibile sottrarsi.

Peccato, perché se c’è una cosa che Carver ripudiava con tutto se stesso è proprio l’etichetta di “minimalista”. Un’etichetta così pretenziosa e a suo modo discriminatoria, così fasulla nella sua pretesa di esattezza, da riuscirgli quasi più ingiuriosa che ridicola.

Come ridicole – e ovviamente ingiuriose – dovettero apparirgli le circostanze che diedero avvio a tale colossale equivoco. Circostanze che tanto più lui richiamava quanto meno sortivano l’effetto di liberarlo dalla maledizione di essere ormai ritenuto urbi et orbi l’indiscusso caposcuola del minimalismo occidentale.

In effetti non fu lui, non fu Carver, a decidere per sé che lui doveva diventare l’emblema, abusivo, del cosiddetto “minimalismo”. Furono – sciagura aurorale di tutte le sciagure procurate poi dalla fatidica categoria – i suoi editors. Loro – non lui – trasformarono la prosa articolata e complessa delle sue prime opere in uno dei più asciutti e rigorosi prodotti letterari che si erano visti fino a quel momento. Quanto a lui, se fosse stato per lui, la sua scrittura avrebbe volentieri fatto a meno di questa radicale scrematura: e forse noi oggi saremmo al cospetto di un autore, certamente non minimalista, ancora più suggestivo e affascinante.

Dunque non cadiamo nella trappola delle etichette assolutistiche: Carver è un grande scrittore non perché qualcuno al posto suo si è occupato di prosciugare la sua prosa al limite della più estrema essenzialità, ma perché – qualunque grado di scrematura i suoi testi abbiano avuto – egli ha uno sguardo che è lo sguardo di un genio. Confondere questo sguardo con il discutibile pregio della sua asciuttezza è più o meno come ritenere il primo Busi un narratore eccellente perché sottoposto all’editing della Adelphi. Certo, a volte un vero e sano editing – “alla Adelphi”, per intenderci – può valorizzare al meglio i talenti di un romanziere. Ma da qui a proclamare Carver un grande autore in virtù dei demiurghi di redazione che ne avrebbero poi propagandato, abusivamente, il minimalismo ce ne corre.

Sia dunque l’invito alla lettura di Carver – come si diceva ai tempi del liceo – un invito a leggerlo non già come minimalista ma come genio del contemporaneo. Un genio di cui la limpidezza stilistica è sicuramente un accessorio importante, ma che eccelso lo è altrettanto a prescindere.

Eccelso, Carver, lo è infatti, a nostro parere, soprattutto per aver colto, non già quel che la ridondante propaganda “carveriana” enfatizza come “la poetica del quotidiano”, e cioè del “minimale”, bensì per aver sondato l’animo umano – certamente partendo dal quotidiano, ma non per farne un tema – così profondamente da renderci edotti di una straordinaria verità: che il senso della vita è così fuggevole da non poter essere espresso se non nell’ambiguità delle cose.

Qui è il Carver più persuasivo: nel disegnare la mappa di uomini e donne sommersi dalla disperazione, dall’incertezza, dall’incompletezza, dalla provvisorietà e dall’insensatezza. Un nichilismo così affinato che obbligarlo alle strettoie della comoda etichetta di “minimalista” è – ripetiamo – a un tempo ridicolo, oltraggioso, ingiurioso e anche un po' impietoso.

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