Arte

La durata di una radice

Omaggio-testimonianza a un'officina d'arte, a una maestra, a una scuola

  • 24 September 2020, 22:00
  • 31 August 2023, 08:57
  • TEATRO
  • TERRITORIO CH
  • CULTURA
Cristina Castrillo
  • © BAK/Geoffrey Cottenceau & Romain Rousset
Di: Daniele Bernardi

Dapprincipio era giallo (e così, sempre, io lo me lo figuro). Stambugio male in arnese in cui si ammucchia memoria, il Teatro delle Radici (TdR) e la sua storica sede luganese – oggi rosso mattone – sono quanto di più opposto si possa immaginare allo spirito dei tempi: non un colosso di cristallo in cui si "produce" cultura, ma quattro pareti di un ex-officina trasformate in fragile perimetro, cerchio di corpi e povero palco. Ripenso al suo ingresso, alla scrivania dietro la quale, come un flusso di pensieri, si sovrappongono locandine di vecchi spettacoli, volti di scomparsi, pensieri di chi è trascorso. E subito, fra le frasi lasciate lì come un sasso a marcare il sentiero, una più di altre emerge. È l'appunto di un'attrice: «un piccolo mondo d'inquietante disordine, zelo, tenerezza e abilità. In fondo sappiamo fare solo questo».

Non a caso, si tratta di una citazione di Ingmar Bergman. Infatti come non pensare al mondo di antichi armadi d'infanzia del regista di Fanny e Alexander varcando le soglie impregnate di tempo di questa simbolica casa? O, ancora, come non tornare con la mente ad Antonius Block, alla sua partita con la morte, ricordando quel «Giochi ancora a scacchi?» scandito in scena da Cristina Castrillo nel suo Sul cuore della terra, spettacolo-svolta del 1988? E se, per associazione, il TdR ci porta a Bergman, va da sé che questi, come accennato, ci conduce senza indugi ai motivi centrali su cui si è imperniato il lavoro di una vita: la morte, l'origine, la memoria.

Ma torniamo indietro, al teatrino polveroso in cui si sono succeduti negli anni decine e decine di volti di attori, danzatori, performer o, più semplicemente, di uomini e donne in cerca di qualcosa che fosse più del mero lavorare «per nutrirsi e vestirsi»; torniamo al luogo in cui ogni partecipante di questa avventura teatrale, che dura ora ormai da quarant'anni, ha cercato di alimentare la propria «possibilità di vita spirituale» con un preciso modo di concepire l'arte.

La prima volta che vi arrivai ero un ragazzino. Seguivo i corsi di teatro rivolti ai giovani di Giuseppe Valenti, nella sala accanto, e quando al termine della lezione, incuriosito, vi passavo di fronte, una magra figura di donna mi invitava a entrare, a dare almeno un'occhiata. Allora puntualmente svicolavo. Glissavo. Rimandavo a un ipotetico futuro rispondendo: «Domani. Forse». La cosa si ripeté per alcuni anni finché, grazie all'iniziativa di un'intelligente insegnante, assistetti a una rappresentazione.

Allora, di fronte alle due interpreti – Bruna Gusberti e Ledwina Costantini – che si avvicendavano sulla scena in uno spettacolo spietatamente bergmaniano (era Le ombre del silenzio, lavoro del 1998 su un torturato rapporto madre-figlia), ancora non sapevo che la scatola nera in cui ero finito mi avrebbe accolto, più avanti, come allievo e attore; così come ignoravo che con la più giovane delle attrici avrei condiviso altre determinanti imprese artistiche. Di quella prima esperienza di spettatore al TdR ricordo, oggi, frammenti di immagini dai colori violenti, un'atmosfera soffocante e pochissimi istanti di dolcezza: una donna che danza abbracciando una sottoveste improvvisamente macchiata di rosso; una goccia che cade dall'alto in un bianco bacile; una fanciulla emersa in scena da un grande disegno strappato; parole d'accusa, di rabbia; una Pietà dagli occhi bistrati di nero e con la bocca insanguinata.

Trascorso del tempo, la mia esperienza in platea si ripeté ancora, e fu la volta di Umbral, sicuramente l'opera della compagnia che ha fatto più repliche in assoluto (parliamo di centinaia spettacoli in un vasto numero di paesi) lasciando un segno profondo in chi ha avuto la fortuna di assistervi. Era la fine degli anni Novanta: da un decennio il TdR strutturava la propria ricerca su processi di espressività fisica e vocale che, attraverso un puntuale uso della "libera" associazione, avevano portato Cristina Castrillo alla definizione del concetto creativo di «azione-immagine». Difatti, da Baguala in poi – memorabile pièce nella quale Diego Castrillo, Nunzia Tirelli e gli altri facevano capolino sul palco affiorando da sottoterra – con L'attimo del Blu (1992), Canto di Pietra (1994), Il Libro dei Riflessi (1996) e Pelle di Lupo (1997) il percorso si era allontanato dalla fase precedente – quella che va da Tracciato a matita (1982) a Tangram (1989) – in nome di un'estetica radicalmente simbolica.

Proprio di questo trattava Umbral. Ed è curioso come uno spettacolo, in fondo un po' intellettuale di intellettuale non avesse un bel niente, ma, al contrario, sapesse condurre lo spettatore in una dimensione storica ed emotiva: con sola interprete la regista-attrice, Umbral è un pubblico ragionamento dove frammenti del cammino di Cristina Castrillo – penso alla perfetta scena dell'interrogatorio tratta da Los pajaros volados o alla struggente rievocazione del Libre Teatro Libre – si mescolano a nuove immagini nate da sogni, riflessioni e domande sul mestiere dell'attore.

Ora, nel cammino di chi del teatro ha fatto la propria scelta c'è stato spesso un momento, un evento che scatenò la scintilla. Il mio (e non credo di essere il solo) fu quello. E ancora, a distanza di moltissimi anni, posso dire con certezza che Umbral è una delle cose più belle, intense e intelligenti che io abbia mai visto.

Ma il mio ingresso ufficiale nel TdR arrivò più in là, quando al termine di quell'immancabile appuntamento pedagogico che è la Scuola-laboratorio internazionale (nel frattempo avevo cominciato a formarmi) Cristina mi propose di partecipare a un progetto di ricerca intitolato Il ventre della balena (2004). Obiettivo era quello di lavorare esclusivamente con un gruppo di attori maschi, cosa nuova in una compagnia che aveva ampiamente indagato i risvolti del femminile.

Difficile, se non impossibile, riportare quanto di determinante, sia dal punto di vista artistico che umano, si giocò nella vita di uno spettacolo nato da una così lunga gestazione e che ebbe in sorte di viaggiare fra Svizzera, Italia, Spagna, Cuba, Venezuela, Perù, Colombia e Iran.

Come al principio di una barzelletta, gli attori erano cinque: un ticinese, un calabrese, un napoletano e due argentini (il sottoscritto, Simone Martino, Carlo Verre, Damian Soriano, Freddy Virgolini). I corpi del quintetto, man mano che si procedeva, vennero, da un lato, inizialmente addestrati attraverso il metodo di Tadashi Suzuki dall'attrice americana Maria Porter, dall'altro condotti dallo sguardo vigile della regista in un territorio che ne trasfigurò la forma estraendone l'essenza. Poi, l'ambito drammaturgico sorto dal lavoro collettivo rivelò la natura tragica della vicenda che si sarebbe andati a narrare: una squadra di uomini gli uni diversi dagli altri ogni giorno deve sotterrare dei morti. Un giorno qualcuno decide di non starci. Basta.

Oggi posso dire che fu un privilegio avere ventitré anni o poco più e apprendere il mestiere in questo modo, portando un certo tipo di discorso in determinate parti del mondo: passavamo da teatrini vacillanti in cui mancava tutto agli straordinari incontri dei The Magdalena Project, dove le peculiari necessità dei contesti si rispecchiavano nel lavoro reinvestendolo costantemente di senso.

Dopo un ulteriore creazione – questa volta, invece, tutta al femminile: parlo di Polvere di rugiada (2006), che vedeva in scena sei bravissime colleghe (Augusta Balla, Giorgia D'Agostino, Silvia Genta, Paola Raho, Fulvia Romeo, Valentina Volpatto) nei panni di una tribù di «maltrattate dalla vita» – come passo successivo venne il turno del progetto più folle, ambizioso che questa realtà abbia mai concepito.

Da anni inevitabilmente attratta da Shakespeare, Cristina Castrillo decise di dedicare un'opera al Bardo, riunendo una truppa-comunità di ben diciassette attori (che oggi non esiterei a definire dei Kamikaze) di provenienze diverse. Shakesperiana (2008), questo il titolo dello spettacolo, aveva una durata di due ore abbondanti e debuttò nei teatri di posa della ex-sede del CISA di Lugano, poiché all'epoca non c'era uno spazio sufficientemente ampio per ospitare l'evento.

Anche se elaborato a partire da una creazione corale, il centro drammaturgico di Shakesperiana aveva personaggi principali e secondari. Il notevole testo (peccato non averlo mai pubblicato), la cui costruzione fu estremamente laboriosa per la regista-drammaturga, venne scritto utilizzando esclusivamente brani di Shakespeare. Non si trattava però di un arbitrario collage di celebri citazioni. Al contrario, lo sforzo fu quello di raccontare una storia, che Shakespeare non aveva mai scritto, senza utilizzare nient'altro che le sue parole. Ecco che quindi il palco si colmò, nuovamente, di figure dal sapore bergmaniano: la morte, cieca, dai capelli rosso vivo, percorreva i lati della scena mentre uno stuolo di bricconi, teatranti disperati e deformi guerrieri esponeva a un principe solitario i meccanismi che muovono il potere. Sola scenografia: diciassette bastoni con degli appositi piedistalli.

Ma mi rendo conto, adesso, di dovermi contenere perché, anche al di là del vissuto personale (che consta di altre esperienze col TdR), sarebbero ancora tanti gli elementi da tirare in ballo. Infatti, sorvolando il Premio svizzero per il teatro conferitogli nel 2014, Cristina Castrillo ha sempre creato molto e queste righe, davvero, non sono sufficienti. Basti almeno ricordare, fra i tanti spettacoli, il duetto di Andrea Fardella e Camilla Parini in Track (2009), le voci disarticolate e i canti di Vestigia (2011), il tanto atteso Se il silenzio sapesse, dove forse Cristina ci ha regalato un frammento del suo mancato lavoro su Kaspar Hauser (troppo complicato da realizzare) o il più recente Transumanze, in cui si sono rivisti due membri storici del gruppo: le già citate Bruna Gusberti e Nunzia Tirelli.

Anche se la pandemia ha ovviamente messo i bastoni fra le ruote alle tante attività della compagnia – i puntuali laboratori estivi, una regia lirica per il Luzerner Theater, le tournée internazionali – Cristina Castrillo non demorde e, con le fatiche condivise da tanti, cerca ora di mantenere fede alla promessa fatta per il prossimo appuntamento: i festeggiamenti per il quarantesimo anniversario d'attività col debutto della nuova creazione Re-cordari e le repliche, presso il Teatro Foce, di alcuni spettacoli ancora in repertorio. D'altra parte, lo aveva detto a suo tempo in Stranieri (2000): «la vera sfida non è vincere, ma non darsi mai per vinti».

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