Letteratura

Henrik Ibsen

Il tavolo e l’abisso

  • 16 ottobre 2020, 00:00
  • 31 agosto 2023, 10:57
Henrik Ibsen
Di: Mattia Mantovani

E’ sempre stata tutta una questione di cielo e colori. Lo aveva capito uno dei massimi esponenti della seconda stagione della Scapigliatura lombarda, Ferdinando Fontana, che nel 1883 aveva raccolto i propri “quadri di viaggio” nel Nord dell’Europa in un libro simpaticamente intitolato “In Tedescheria”.

Parlando nello specifico del cielo sopra Berlino -che un secolo dopo, grazie all’omonimo film di Wenders, diventerà quasi una coordinata esistenziale-, ma riferendosi più in generale ai “Cieli del Nord” (e qui il pensiero non può che andare a “Northern Sky”, bellissima canzone dello sfortunato cantautore inglese Nick Drake), Fontana si espresse infatti in questi termini: «I firmamenti del Nord hanno qualche cosa di duro, di crudo, di opaco. Lo scintillio degli astri non ha morbidezze di bagliori, ma rassomiglia piuttosto al corruscare di punte di baionette. Quel cielo e quelle stelle sono là, belli, sì, se volete, ma rigidi come soldati».

Le considerazioni di Fontana sono davvero molto utili, perché suggeriscono una nuova prospettiva. Tutta la letteratura scandinava, e quindi anche il teatro del norvegese Henrik Ibsen, che ne è una delle espressioni più alte e compiute, risulta infatti maggiormente accostabile proprio a partire da una simile prospettiva, perché le atmosfere e i colori del nord hanno creato una mentalità che è anche una grammatica, una sintassi, un modo di strutturare le frasi, perfino di scegliere i singoli vocaboli, le pause, le interiezioni e le esclamazioni.

Lo ha notato giustamente lo scandinavista Roberto Alonge, che in questo ultimo ventennio (ma il progetto risale addirittura ai primi anni Ottanta), insieme a un gruppo di giovani studiosi del DAMS dell’Università di Torino, si è dedicato all’impresa tanto improba quanto meritoria di ritradurre da capo a fondo i “drammi moderni”, conosciuti anche come “drammi della maturità”, vale a dire i dodici testi scenici scritti tra il 1877 e il 1899: «C’era davvero bisogno di una nuova traduzione di Ibsen? Francamente credo di sì, e anche il lettore potrà rendersene conto. La maggior parte delle traduzioni italiane stentano a restituirci anche solo l’ossatura esteriore dell’opera ibseniana. Mancano cioè i corsivi, che sono numerosissimi e sempre profondamente pungenti». Non sono affatto questioni secondarie, perché la scrittura di Ibsen è ovviamente pensata per la scena, e di conseguenza i corsivi all’interno delle singole battute, i segni grafici e la punteggiatura corrispondono ad altrettante indicazioni di regia, che nelle precedenti traduzioni italiane sono state colpevolmente omesse.

Alonge cita al proposito moltissimi casi, in particolare un passo altamente drammatico di “Hedda Gabler”, dove Ibsen adotta il doppio trattino di sospensione ad indicare la necessità di attenersi a una doppia pausa (che esprime il nulla dietro le parole, l’incomunicabilità, la difficoltà di individuare un codice condiviso). L’ossatura esteriore del teatro di Ibsen è un’architettura perfettamente congegnata in ogni minimo dettaglio. E’ poco poetica, forse, ma in fondo Ibsen cercava la verità, non la poesia, perché sapeva che la “poesia”, o per meglio dire la finta poetizzazione (la “rettorica” che regola i traffici sociali, secondo la celebre definizione di Carlo Michestaedter, non a caso suo lettore attentissimo) intorbida e sentimenti e vela la realtà. E’ anche per questo motivo che Ibsen, insieme a Tolstoj, ha minato alla base la coscienza moderna e la moderna percezione della realtà. Perché ha squarciato il velo della “rettorica”.

Il discorso si chiarisce ulteriormente prendendo in considerazione l’ossatura interiore dei drammi, perché la lingua di Ibsen è rigorosamente strutturata su richiami, assonanze, riprese e variazioni talora sottilissime (uno dei suoi lettori più avvertiti, il Premio Nobel Pär Lagerkvist, ha osservato giustamente che il teatro di Ibsen è come un tavolo poggiato saldamente sulle quattro gambe). Le vecchie traduzioni italiane -forse perché condotte su traduzioni tedesche- hanno sempre prestato pochissima attenzione a questi elementi. Il caso più evidente è quello di “Una casa di bambola”, con l’aggettivo “vidunderlig” (“meraviglioso”) che ha una funzione portante perché esprime il tratto sostanziale del personaggio di Nora, la sua ingenuità, il suo infantilismo e lo scarsissimo senso della realtà. Ibsen lo ripete più volte, sempre con la stessa connotazione, per far capire che Nora non è affatto quell’icona protofemminista che nel corso del Novecento è stata poi variamente mitizzata e banalizzata. Tradurre “vidunderlig” con “splendido”, “stupendo”, “miracoloso”, “prodigioso”, o addirittura con “che cosa magnifica!”, peraltro senza alcun criterio, è quindi un grave errore nonché un tradimento del dettato originale.

Ma il caso davvero dirimente è quello dei due verbi “høre” (“ascoltare”) e “lytte” (“origliare”), la cui differenza è fondamentale per capire fino a che punto il salotto borghese (ovvero la vita) dei drammi di Ibsen sia uno spazio chiuso e soffocante, un inferno domestico fatto di mezze menzogne e mezze verità, un labirinto claustrofobico di porte chiuse e socchiuse, parole realmente sentite oppure soltanto immaginate. Uno dei suoi massimi interpreti italiani, il compianto Massimo Castri, ha osservato giustamente che Ibsen è il fratello gemello di Freud (e anche di Conrad, vorremmo aggiungere), perché le porte chiuse e socchiuse, i tendaggi che velano e disvelano sono altrettanti passaggi dalla coscienza all’inconscio, dalle tenebre alla luce. Sorvolare sulla differenza tra “høre” e “lytte”, traducendo indifferentemente, con “ascoltare” e “sentire”, significa ridurre l’ossatura interiore a un semplice e banale sostegno. Il dettaglio, in Ibsen, è decisivo. In fondo, è stato lui a dire che pretendere di vivere è da megalomani, perché nel mondo della “rettorica” non è dato alcun accesso alla persuasione e cioè al pieno possesso della propria esistenza. La vita è assente, ma la sua assenza si rivela anche e soprattutto nei dettagli -le pause, il non detto, le sospensioni sintattiche e grammaticali- che ne dicono il desiderio e la nostalgia.

Per chi non lo ha letto nell’originale norvegese, è davvero una grande rivelazione. Ibsen è la tecnica teatrale nella sua massima espressione, e il suo tavolo, per riprendere la suggestiva immagine di Lagerkvist, è saldamente piantato sulle quattro gambe. Ma sotto si spalancano il vuoto e l’abisso.

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