Filosofia e Religioni

Il mondo viene prima degli dei

L'ineluttabilità del destino in Cesare Pavese

  • 19 April 2021, 22:00
  • 29 June 2023, 16:24
  • FILOSOFIA
  • CULTURA
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Di: Marco Alloni

L’editore Feltrinelli ripropone un libro pubblicato da Cesare Pavese sul finire degli anni Quaranta: Dialoghi con Leucò. Si tratta di una serie di dialoghi tra personaggi reali e fittizi dell’antico universo greco. Prima ancora è però un prontuario di meditazione poetica, laddove per poesia si deve intendere quel remoto accordo tra filosofia e morale, pensiero e sentimento del mondo, che nel linguaggio mitico o mitopoietico trova il suo unico possibile veicolo.

Come ogni prontuario che si rispetti – e questo può essere un prontuario addirittura venerabile – il volumetto non ammette una lettura prosaica o il facile linearismo di chi si aspetta dalla parola un gesto comunicativo: la sua cifra è contemplativa, il suo appello recondito un appello alla meditazione.

Potremmo dire che in questa raccolta di dialoghi Pavese ci esorta ad accogliere l’ossimoro della sacralità profana, a conquistare gli spazi ultimi del sentimento fatale delle cose.

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Un dialogo in particolare, che qui portiamo ad exemplum di tutta la collezione, rivela di questa vocazione dell’autore a testimoniare la fatalità, la quintessenza della fatalità: quello che Pavese ha voluto intitolare I ciechi. Un dialogo fra Edipo e Tiresia che emblematicamente si snoda intorno alla costernata domanda del primo: Ma allora gli dèi che ci fanno?

Chi abbia qualche familiarità con la mitologia greca sa che questa è la domanda fondamentale: gli dèi decidono tutto o sono a loro volta decisi?

Tiresia risponde: Il mondo è più vecchio di loro. Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose -–adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.

In questa svelta pennellata sul senso e la natura stessa dell’essere – o volendo scomodare Heidegger, dell’Essere – Pavese ci ha detto quasi tutto su che cosa debba essere poesia: recuperare la fatalità, né buona né cattiva, sia buona che cattiva, che è custodita nelle cose. Recuperarla perviverla senza obbligarla all’arbitrio di senso e illusione, di illusione e minaccia, che fu degli dèi e resta degli uomini pensanti e delle loro ambizioni metafisiche.

Chiede Edipo, costernato dal disincanto di Tiresia: Proprio tu, sacerdote, dici questo? E Tiresia risponde: Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. È un mattino d’estate. Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega. Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto? È accaduto qualcosa – che non è bene né male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dèi.

Questo prodigioso riconoscere come ineluttabile il carattere più intimo dell’essere, questo richiamo al fatto che l’esistenza accade a prescindere dal suo senso, persino dalla volontà e voluttà degli dèi – Qual è questa favola che tu credi abbia un senso? – ci sospinge nel cuore più tragico e rivelatorio di ogni possibile fenomenologia, di ogni possibile nichilismo. E ci insegna che senso è una parola che la vita umana, la vita naturale in quanto tale, semplicemente non può ospitare.

Poiché appunto: La roccia non si tocca a parole. A parole si può toccare il pensiero, ma la roccia non si tocca né a parole né in qualunque forma può essere detto l’accadere della sua esistenza e della nostra. Noi siamo perché siamo e non esiste altro se non questa esistenza:Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome.

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Osare con la parola poetica questo salto nell’indicibile è dunque l’estremo atto poetico e morale di Pavese. Un atto che non lo risparmierà dal porre fine alla propria vita, ma che vale per sempre come testamento dell’umano.

Come dice Salvatore Ritrovato nella Prefazione: «Il primo miracolo dei Dialoghi con Leucò è la sua poesia, che non nasce contro o dopo il mito, ma dentro, nella riconquista di una terra dimenticata e per molti aspetti incognita (...) Ci troviamo davanti a personaggi che lasciano trapelare la rara sensibilità di chi ha coltivato le parole per secoli, e in silenzio».

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