Musica

Janis Joplin

Il tormento nella voce

  • 19 gennaio, 08:23
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Di: Fabrizio Coli

Buried Alive in Blues, sepolta viva nel blues. È la canzone che Janis Joplin non completò mai. La traccia musicale del pezzo era già finita e registrata. Lei avrebbe dovuto aggiungervi la sua voce il 4 ottobre del 1970. Ma quel giorno di cinquant'anni fa la ritrovarono morta al Landmark Motor Hotel di Los Angeles. Overdose accidentale di eroina. Il brano è caldo, pieno di energia. Ma quel titolo, con gli occhi del poi, suona sinistro. Sepolta viva nel blues, sepolta viva nella tristezza, nella sofferenza interiore… Fu incluso come strumentale nell’album Pearl, uscito postumo pochi mesi dopo la scomparsa della cantante. Buried Alive è anche un titolo talmente calzante da essere stato scelto nel 1973 dall'autrice Myra Friedmann per la prima biografia dell’artista statunitense, ritratto sesso, droga e rock’n’roll di un talento di enorme intensità e di un’anima vulnerabile e ribelle, rinchiusa in una gabbia piena di demoni personali che alla fine l'hanno uccisa.

Come Jimi, così Janis. Come Hendrix anche il percorso artistico di Janis Joplin è stato brevissimo, una manciata di anni dal 1966 al 1970. Lo sfondo della fine degli anni Sessanta è lo stesso per entrambi e i due hanno condiviso anche momenti topici: il Monterey Pop Festival del 1967 che in pratica lanciò entrambi e l’epocale festival di Woodstock, che Hendrix chiuse con una delle sue più mitologiche esibizioni e che la Joplin affrontò strafatta, non brillando come in altre occasioni. Entrambi hanno lasciato delle eredità durature. Hendrix ha creato un universo sonoro mai sentito prima ed è diventato un’immortale icona del suo strumento, la chitarra. Anche Janis Joplin ha creato qualcosa, ma non si tratta tanto o solo di un’eredità musicale. Alla fine, i suoi pezzi più noti sono quasi tutti versioni di brani altrui, blues al calor bianco, certo vestito dell’acidità rock di quei tempi, certo interpretato con una voce e con un’energia straordinarie inseguite da schiere di artiste successive, certo resi personalissimi, ma sempre brani altrui. Quello che Janis Joplin ha creato davvero è invece uno spazio, uno spazio in un mondo tipicamente maschile come quello del rock’n’roll dove una donna non fosse né concubina né comparsa, ma autentica protagonista, padrona indiscussa della scena, unico centro dell’attenzione. Quello spazio avevano cominciato a reclamarlo già tante artiste donne prima di lei, ma la Joplin lo ha conquistato definitivamente, per se stessa e le sue future colleghe.

La ragazza nata a Port Arthur, Texas, il 19 gennaio del 1943 avrebbe però dovuto pagare un prezzo molto alto a quell’intensità che le permise di lasciare un segno così profondo. La potenza dolorosa delle sue interpretazioni, così autentica, così reale aveva bisogno di consumare carne, sangue e anima e il vissuto di insicurezze della piccola Janis, unito a un carattere ribelle, l’ha alimentata. In famiglia – padre ingegnere, madre impiegata, un fratello e una sorella – era amata. Nel mondo che la circondava, in quella asfissiante piccola cittadina di 60 mila abitanti, invece no: di questo avrebbe sofferto per sempre. Fragile ma al tempo stesso anticonformista non poteva essere accolta nella provincia americana dei suoi anni. Di certo non al Sud, di certo non una come lei, una ragazzina grassoccia e affetta dall’acne, con un disperato bisogno di farsi accettare e che invece era schernita, derisa o peggio bullizzata dai compagni. Anche cresciuta, ai tempi degli studi al college che non finì, dei mentecatti di una confraternita la votarono come “l’uomo più brutto del campus”, lasciandole altre ferite da portarsi dietro. Non per questo però Janis era disposta a cambiare le sue idee o il suo modo di essere. Insicura e vulnerabile sì, ma non certo debole o arrendevole. Da quando poi, da adolescente, aveva scoperto il suo dono, una via d’uscita si era aperta all’orizzonte. Quel dono era la voce, una voce potente e tormentata, piena di anima e passione. Fu la musica a portarla lontano da quel mondo che le stava stretto.

Prima Austin, con i suoi locali. Poi la San Francisco di Haight and Ashbury, quella della controcultura, dei beatnik. Un altro mondo. Qui scoprì gli hippie e loro scoprirono lei come la cantante dei Big Brother and the Holding Company, la band a cui era approdata grazie a Chet Helms, promoter che l’aveva conosciuta in Texas. Ma a San Francisco trovò anche qualcos’altro: la droga, uno degli incubi che ne segneranno la vita e la morte. Proverà a liberarsene, in un percorso ondivago tra la California e il Texas dove tenterà di ripulirsi in seno alla famiglia. Ma ci ricadrà sempre.

Tutte le fragilità e il bisogno di amore che l’accompagnavano da sempre, le insicurezze e le debolezze, lei però le ha sempre combattute col fuoco. Quella che il pubblico scoprì nei primi anni di carriera, quelli dell’esordio con il primo, omonimo album dei BBHC e della consacrazione sul palco del Monterey Pop Festival, fu una donna sboccata che esibiva sfrontatamente la propria carica sessuale. Uomini, donne. Molti furono gli amori di Janis. Tutto in lei era eccessivo, la sua voce, i suoi boa di piume, il look stravagante, i suoi comportamenti, le sbronze di Southern Comfort e il consumo di stupefacenti. Ma se la persona Janis Joplin è stata sempre alla ricerca disperata di qualcosa con cui riempire un vuoto interiore, l’artista è impressionante. Cheap Thrills (1968), il secondo album dei BBHC, raggiunse il primo posto delle classifiche e la incoronò definitivamente come star. Quel disco ha una primordiale carica blues e la voce della Joplin scava con drammatica profondità nel solco di Bessie Smith, di Odetta, di Big Mama Thornton. È l’album che contiene le sue versioni di brani come Ball and Chain o Piece of My Heart. E anche una Summertime che Gerschwin non avrebbe mai pensato così straziante.

Il successo di Janis fa nascere gelosie in seno ai Big Brother and The Holding Company, di cui senza di lei ben pochi avrebbero mai sentito parlare. Se ne separa, i gruppi si susseguono e con essi i tour, in patria, in Europa, in Canada. Prima viene la Kozmic Blues Band, con cui registra nel 1969 I got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama!. Poi i Full Tilt Boogie. Stava lavorando con loro quando morì. Quell’album, prodotto da Paul Rotschild (lo stesso che aveva messo su vinile i Doors), è il suo epitaffio e avrà per titolo il suo soprannome, Pearl. È il disco che contiene altri suoi grandi successi, Mecedes Benz, Me and Bobby McGhee scritta da Kris Kristofferson, Cry Baby che Janis fa diventare un urlo contro una storia d’amore senza lieto fine, vissuta da poco con un ragazzo americano conosciuto in Brasile. Forse avrebbe solo desiderato essere con lui quella notte, oppure con qualcun altro o altra che riempisse il suo vuoto. Invece se ne andò da sola in quello squallido albergo, con l’unica compagnia di un ago in vena.

La protagonista di The Rose, film del 1979, è chiaramente ispirata a Janis Joplin. L’ha interpretata Bette Midler, che per questo ruolo è stata nominata all’Oscar. Il lungometraggio doveva in origine raccontare proprio la storia di Janis, ma la famiglia non concesse i diritti. In anni recenti si è vociferato spesso di film su di lei. compreso un biopic con protagonista Amy Adams. Finora non se ne è fatto mai nulla.

C’è stato però il successo off-Broadway del musical Love, Janis, ispirato dal libro omonimo, scritto dalla sorella Laura. A interpretare in scena la cantante è stata Beth Hart, una delle artiste più potenti degli ultimi decenni, che con la Joplin condivide sia una voce spettacolare, sia una vita che non le ha risparmiato ferite e sofferenze. E ci sono stati documentari come lo splendido Janis: Little Girl Blue diretto da Amy J. Berg, presentato a Venezia nel 2015. Un ritratto toccante e intimo di una ragazza la cui voce era il perfetto specchio dell’anima tormentata e il cui sorriso triste affiorava sempre, anche nei momenti più sfrontati e selvaggi.

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