Sócrates, l’immaginazione al potere
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Sócrates, l’immaginazione al potere

di Valerio Rosa

  • Keystone
  • 26.11.2022
  • 4 min
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  • Scienze umane e sociali

Il numero 8 si avvicina al pallone con lentezza da passeggiata domenicale, come un gatto che prepari l’agguato a un gomitolo. Poi, all’improvviso, tira. Nessun altro in Brasile batte i rigori così. Ma il suo marchio di fabbrica è il colpo di tacco, che disorienta gli avversari e fa sobbalzare Pelé: “Quell’uomo è un genio! Dovrebbe giocare sempre di schiena, con quel tacco che ha. Chi diavolo è?”. È Socrates, uno che nel calcio e nella vita fa quello che gli pare. Di fronte ai suoi principi e alla sua libertà tutto il resto, anche i soldi e la fama, passa in secondo piano. Gli studi di medicina e la specializzazione in pediatria vengono prima degli allenamenti, che spesso salta, dei ritiri, che odia, e persino delle partite, a cui si presenta con pochi minuti di anticipo. Ama ripetere che i calciatori si dividono in due categorie: quelli che corrono e quelli che pensano. E lui, con quel nome… Glielo ha affibbiato il padre, appassionato lettore dei classici greci, attingendolo dalla Democrazia di Platone. Socrates è il primo di sei figli: il secondogenito si chiama Sostenes e il terzo Sofocles. Alla nascita del quarto, il padre vorrebbe chiamarlo Xenofontes, ma a quel punto, come un difensore sulla linea di porta, la madre interviene e sventa la minaccia. Nel 1964, quando in Brasile i militari prendono il potere, il padre brucia tutti i libri di argomento marxista che ha in casa. Una scena che segnerà per sempre il giovane Socrates, che da calciatore festeggerà ogni goal alzando al cielo il pugno chiuso, giusto per non lasciare mai dubbi sul suo orientamento politico. E non solo: al Corinthians darà vita a un esperimento folle e rivoluzionario di autogestione, in cui ogni aspetto della vita del club - gli orari degli allenamenti, il calciomercato, persino la formazione titolare – viene deciso a maggioranza da tutti i dipendenti (i tecnici, i giocatori, i massaggiatori e la signora che fa il bucato). È la “democrazia corinthiana”, basata, come la città ideale teorizzata da Platone, su un profondo senso comunitario, grazie al quale, anche se i militari storcono il naso, il Corinthians vince due scudetti consecutivi.

Socrates passa alla Fiorentina nel 1984. Il calcio ha imboccato già da tempo la deriva che lo ha trasformato in un ramo dell’industria del divertimento. Un calcio meccanizzato, che gira intorno ai soldi e arricchisce i suoi eroi privandoli però del piacere di giocare e della libertà di pensare e di esprimere le proprie idee. E come Dorian Gray baratta l’anima in cambio dell’eterna giovinezza, così i calciatori sacrificano alla fama e al denaro la libertà intellettuale. Alle domande tutt’altro che scomode, spiazzanti, imprevedibili dei giornalisti (“Sei pronto per la prossima partita?”), rispondono in modo altrettanto innocuo (“Darò il massimo per questa maglia e per i tifosi e sono contento che il mister abbia fiducia in me”). Socrates, al contrario, non è mai banale: al giornalista italiano che gli domanda se preferisca Rivera o Mazzola risponde: “Non so chi siano. Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e per studiare la storia del movimento operaio”. E poi rincara la dose: “Leggo di tutto, ma non i giornali sportivi”. A Firenze non nasconde la sua estraneità ai ritmi e ai doveri del calcio professionistico europeo, che sacrifica al risultato il divertimento e l’allegria, la passione e la fratellanza. “È come passare”, si lamenta, “dal carnevale di Salvador de Bahia a un convento benedettino”. Ai campi di allenamento preferisce le osterie toscane, dove tira tardi bevendo, fumando e parlando di Dio e di Schopenhauer, di Epicuro e di socialismo. “Il piacere”, si giustifica, “è il mio unico obiettivo. La vita è molto breve, e se sono parte di una lotta o di un processo politico, allora sì che provo piacere. Il giorno in cui smetterò di provarlo, sarà tutto finito”. E ancora: “Mi accusano di vivere pienamente la vita, ma questo è un cambio di morale impressionante, perché l’unica cosa che ci serve è proprio questa, vivere bene la nostra vita, e tutto il resto non vale niente”. Ed è un piacere che ha senso solo se viene condiviso: per questo Socrates si spende per i più umili e i più deboli fino alla fine dei suoi giorni, da attivista, da essere umano, da calciatore e da medico che ama la vita, la birra e il samba. E le sigarette: “Ho provato a smettere cinquantamila volte. Ho provato anche oggi, ma ho resistito fino alle 11 del mattino. L'unico quesito filosofico che mi pongo è: "Perché mai dovrei cercare di fingermi diverso da come sono?".

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