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L’arma (spuntata) del petrolio

di Gianfranco Fabi

  • 19 October 2018, 12:20
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Venerdì 19 ottobre 2018 alle 12:20

Quarantacinque anni fa, nell’ottobre del 1973, scoppiò quella che è passata alla storia come guerra del Kippur con l’attacco di Egitto e Siria ad Israele nel giorno di una delle maggiori feste religiose ebraiche. Dal punto di vista politico-militare Israele riuscì prima a difendersi, poi a vincere, ma quella guerra ha segnato anche un punto di svolta sul fronte economico perché per la prima volta il petrolio venne usato come arma: gli stati arabi, che allora dominavano l’Opec, l’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, raddoppiarono in pochi giorni i prezzi e diminuirono contemporaneamente le esportazioni in particolare quelle verso gli Stati Uniti.

Le conseguenze furono particolarmente pesanti, anche in Europa, soprattutto con un forte freno alla crescita economica.

Gli avvenimenti degli ultimi giorni hanno riproposto il tema del possibile uso del petrolio come arma diplomatica in particolare per l’imprevista tensione tra Stati Uniti ed Arabia dopo la scomparsa nell’ambasciata saudita in Turchia del giornalista dissidente Jamal Kashoggi, residente da anni in America.

Premesso che l’evoluzione dei rapporti politici rimane in larga parte imprevedibile resta il fatto che lo scenario in cui si potrebbe ora attuare una guerra del petrolio appare profondamente diverso da quello di quarantacinque anni fa. L’Arabia saudita è il primo paese nella classifica sia dei produttori, sia degli esportatori di petrolio, ma il mercato è ora molto diversificato con protagonisti significativi, che potrebbero almeno in parte sostituire il greggio saudita, come la Russia, la Nigeria, il pur dissestato Venezuela, che comunque è stimato abbia una produzione potenziale maggiore di quella della stessa Arabia.

Il petrolio è una componente importante per coprire i consumi interni degli Stati Uniti, ma l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che una crescita dei prezzi del greggio può rendere conveniente lo sfruttamento dei giacimenti in cui il costo di estrazione è più alto.

Ma è soprattutto sul fronte interno di Riad che l’uso dell’arma del petrolio potrebbe diventare del tutto controproducente. Per molti fattori. Le entrate petrolifere costituiscono una parte fondamentale del bilancio in un paese impegnato in un ambizioso progetto chiamato “Vision 2030” che mira a far diventare l’Arabia un’economia post-energetica, inserita nel mondo produttivo internazionale e aperta, pur a piccolissimi passi, verso il riconoscimento dei diritti civili in una società ora fortemente condizionata dalle leggi religiose.

L’Arabia peraltro non si limita ad estrarre e vendere il greggio. Le petroliere che lo trasportano negli Usa sono di una compagnia saudita, così come la Suadi Aramco controlla la più grande raffineria americana, a Port Arthur in Texas.

Gli intrecci sono quindi notevoli.

Dal profilo politico poi gli Stati Uniti considerano l’Arabia Saudita uno degli alleati fondamentali nella situazione eternamente complicata del Medio Oriente. Non a caso Riad è stata la meta del primo viaggio all’estero di Donald Trump da presidente nel maggio dell’anno scorso, viaggio in cui ha sottolineato con forza di essere al fianco dei sauditi nel perseguimento degli interessi e della sicurezza comuni.

Ci sono quindi molte ragioni per ritenere come non sia più il tempo per pensare che il petrolio possa tornare ad essere un’arma della politica, anche se le ragioni della politica spesso non seguono le logiche dell’economia e della razionalità.

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