Riforme e Patto Sociale

di Fabrizio Zilibotti

Accade talora che situazioni di emergenza economica aprono opportunità di riforme strutturali i cui benefici vanno al di là dell’esigenza immediata di risanamento. Nel 1994, il parlamento svedese approvò, sulla spinta della crisi economica più profonda di quel paese negli ultimi 50 anni, una riforma modello del sistema pensionistico. Si creò un sistema che offre benefici pensionistici contingenti alle dinamiche demografiche ed a quelle della crescita economica. Un sistema che, per costruzione, è equilibrato e sostenibile. Questo sistema è uno dei pilastri della stabilità economica e fiscale del paese.
Fu una riforma disegnata da esperti economisti e demografi che godette del sostegno consensuale di tutti i partiti politici. Non ne seguì alcuna rivolta sociale. La gravità della crisi creò un senso di responsabilità collettiva che neutralizzò ogni incentivo a mettere in piedi trame populistiche.
È lecito paragonare qull’episodio alla situazione odierna del governo italiano di Mario Monti? Il sistema pensionistico italiano è stato per decenni un fardello enorme sul debito pubblico, una sorta di pozzo di San Patrizio cui i governi passati hanno attinto per soddisfare interessi particolari. Vi sono state, di recente, piccole riforme. Ma il problema strutturale non è stato intaccato. Gli italiani continuano ad andare in pensione troppo presto, o per converso, a percepire prestazioni troppo generose rispetto ai contributi erogati. Dato il profilo demografico, l’Italia avrebbe dovuto accumulare nei trenta anni scorsi un forte superavit da utilizzare come fondo di riserva per gli anni a venire. Al contrario, il paese entra nella fase più difficile della transizione demografica con un debito pubblico pari al al 120% del prodotto lordo.
Il governo Monti si è mosso nella direzione corretta, proponendo non un ulteriore aggiustamento al margine, ma una riforma profonda che impone età minime pensionabili ragionevoli ed una certa flessibilità nell’età in cui i lavoratori possono lasciare la forza lavoro. Personalmente, avrei spinto ancora di più sulla flessibilità. Se un cittadino preferisce smettere di lavorare a 60 anni, faccia pure, ma i pagamenti siano commensurati ai contributi ed ai pagamenti attesi. Nel linguaggio giormaistico, si parla di penalizzazioni per chi va in pensione presto. Si tratta in realtà di eliminare le gravi distorsioni di un sistema che al momento penalizza chi rimane nella forza lavoro.
Quello che manca in questa manovra è un patto sociale che cementi le basi della riforma. Sarebbe stato importante neutralizzare, almeno in parte, gli effetti redistributivi di questa riforma – che gravano particolarmente su lavoratori con redditi medio-bassi. La destra populista di Berlusconi ha posto picchetti. In particolare, ha imposto il veto su un’imposta patrimoniale che (se ragionevole) non avrebbe magari avuto effetti di primo ordine sul gettito fiscale, ma avrebbe introdotto un principio di trasparenza fiscale sui flussi di reddito e ricchezza dei dichiaranti, che avrebbe a sua volta ostacolato l’evasione fiscale. Lo zoccolo duro del partito di Berlusconi consiste in buona
misura di cittadini che evadono le imposte e che non vogliono un miglioramento del sistema fiscale. E questo il cavaliere lo sa bene.
La piccola tassa inflitta a chi si è beneficiato dello scudo fiscale, così come i limiti sui pagamenti in contante sono più un contentino per placare i brontolii del Partito Democratico che un serio collante sociale.
Ciononostante, fanno male i sindacati ad aprire il fronte delle proteste con scioperi inopportuni che rischiano di aprire la strada a quella disgregazione sociale cui aspirano il populismo rissoso della destra e della Lega Nord. Anche Francia e Germania devono dare credito a questo sforzo che potrebbe essere l’ultima spiaggia per l’unione monetaria.

Tags: plusvalore, italia, riforme

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