Il direttore dell’authority cinese sui cambi ha annunciato martedì scorso che la Cina non diminuirà la propria esposizione sui titoli di stato americano. Questo annuncio riflette le aspettative che l’avanzo commerciale della Cina continuerà a crescere, spingendo il paese ad assorbire ulteriori titoli di debito pubblico occidentale, soprattutto americano. Niente di sorprendente, dato che nei primi due mesi del 2010 la Cina ha fatto registrare un ulteriore avanzo commerciale di 22 miliardi di dollari.
La corsa del gigante asiatico è fonte di speranze, ma anche di timori. In un mondo che ha disperatamente bisogno di una ripresa della domanda, la crescita dell’economia cinese potrebbe essere una buona notizia. Tuttavia, il fatto che la Cina continui ad esportare molto più di quanto non importi significa che essa non opera come un traino del motore della ripresa mondiale.
E’ interessante ritornare alle ragioni strutturali dello squilibrio. La Cina non è sempre stata un grande creditore sui mercati finanziari internazionali. Negli anni ottanta, soffriva al contrario di una penuria strutturale di valuta estera. Ancora nel 1993, le riserve estere della Cina ammontavano a 22 miliardi di dollari, una cifra irrisoria – oggi, tale cifra si avvicina alla soglia dei 2500 miliardi di dollari.
Dal punto di vista della contabilità nazionale, lo squilibrio riflette un eccesso di risparmi sugli investimenti. Si noti, e chi fa un viaggio in Cina lo può verificare con mano, che gli investimenti sia pubblici che privati in Cina sono più che sostenuti. Il rapporto tra investimenti e prodotto interno lordo è intorno al 40%, uno dei più alti del mondo. Questo è naturale, date le enormi potenzialità di crescita che questo paese offre agli investitori. Tuttavia la Cina risparmia ancora di più di quanto non investa: intorno al 50% del prodotto interno lordo non è consumato, ma viene o investito o esportato. Chi risparmia in Cina? Un po’ tutti: le imprese, il governo, ma anche le famiglie. La propensione al risparmio delle famigli cinesi è vicina al 30% del reddito disponibile, mentre gli americani risparmiano il 4% e gli europei il 10%. Il fatto che la Banca Centrale ha il monopolio dei titoli in valuta estera non deve creare confusione. I risparmiatori e le imprese cinesi investono i risparmi in titoli o depositi emessi dalle autorità o banche locali, a fronte delle quali la Banca Centrale mantiene le proprie posizioni in valuta.
In questi mesi, vi è una forte pressione internazionale perché la Cina abbandoni il peg con il dollaro e rivaluti la valuta locale, lo Yuan. E’ probabile che questo accadrà, anche perché le autorità cinesi sono preoccupate per l’incedere dell’inflazione. Credo, tuttavia, che sarebbe sbagliato farsi illusioni. Una misura di carattere monetario può avere degli effetti nel breve periodo, rendendo le esportazioni cinese un po’ più care e le importazioni più a buon mercato, cosa che in ogni caso accadrebbe attraverso i differenziali di inflazione. Se il problema dura da 15 anni, le cause non possono essere monetarie, ma strutturali. In particolare, il governo cinese, permeato da un misto di memorie dell’ideologia comunista secondo solo risparmi e investimenti contano, e di neoliberismo stile George Bush secondo cui quanto meno lo stato trasferisce ai cittadini, tanto meglio, continua a rifiutare ad impegnarsi con vigore in programmi che favorirebbero il consumo ed il benessere dei cittadini.
Con i suoi 2500 miliardi di surplus, la Cina potrebbe rinforzare l’asfittico sistema pensionistico e migliorare la modesta assistenza sanitaria pubblica. I dati suggeriscono che una parte importante del risparmio delle famiglie urbane è legato al timore di malattie in età avanzata. Chiaramente, un’assistenza pubblica migliore ridurrebbe tale urgenza di risparmio e migliorerebbe la vita di decine di milioni di persone. Purtroppo, l’ideologia economica che viene importata dai giovani cinesi che si educano nelle università americane si nutre del pregiudizio d’oltre oceano che tutto ciò sarebbe pericoloso, e foriero di grandi disastri economici, come quello già sperimentato dei paesi europei. Forse varrebbe la pena di pagare a cittadini e dirigenti cinesi qualche viaggio attraverso i paesi europei per mostrare loro che, pur tra tanti problemi, il modello Europeo non è quella catastrofe che talora viene loro descritta, e che la crescita senza un’enfasi bilanciata sulla qualità della vita non è un affare così virtuoso. Mi verrebbe da dire che lo squilibrio richiede “una rivoluzione culturale”, ma parlando della Cina meglio non fare confusione.
La corsa del gigante asiatico è fonte di speranze, ma anche di timori. In un mondo che ha disperatamente bisogno di una ripresa della domanda, la crescita dell’economia cinese potrebbe essere una buona notizia. Tuttavia, il fatto che la Cina continui ad esportare molto più di quanto non importi significa che essa non opera come un traino del motore della ripresa mondiale.
E’ interessante ritornare alle ragioni strutturali dello squilibrio. La Cina non è sempre stata un grande creditore sui mercati finanziari internazionali. Negli anni ottanta, soffriva al contrario di una penuria strutturale di valuta estera. Ancora nel 1993, le riserve estere della Cina ammontavano a 22 miliardi di dollari, una cifra irrisoria – oggi, tale cifra si avvicina alla soglia dei 2500 miliardi di dollari.
Dal punto di vista della contabilità nazionale, lo squilibrio riflette un eccesso di risparmi sugli investimenti. Si noti, e chi fa un viaggio in Cina lo può verificare con mano, che gli investimenti sia pubblici che privati in Cina sono più che sostenuti. Il rapporto tra investimenti e prodotto interno lordo è intorno al 40%, uno dei più alti del mondo. Questo è naturale, date le enormi potenzialità di crescita che questo paese offre agli investitori. Tuttavia la Cina risparmia ancora di più di quanto non investa: intorno al 50% del prodotto interno lordo non è consumato, ma viene o investito o esportato. Chi risparmia in Cina? Un po’ tutti: le imprese, il governo, ma anche le famiglie. La propensione al risparmio delle famigli cinesi è vicina al 30% del reddito disponibile, mentre gli americani risparmiano il 4% e gli europei il 10%. Il fatto che la Banca Centrale ha il monopolio dei titoli in valuta estera non deve creare confusione. I risparmiatori e le imprese cinesi investono i risparmi in titoli o depositi emessi dalle autorità o banche locali, a fronte delle quali la Banca Centrale mantiene le proprie posizioni in valuta.
In questi mesi, vi è una forte pressione internazionale perché la Cina abbandoni il peg con il dollaro e rivaluti la valuta locale, lo Yuan. E’ probabile che questo accadrà, anche perché le autorità cinesi sono preoccupate per l’incedere dell’inflazione. Credo, tuttavia, che sarebbe sbagliato farsi illusioni. Una misura di carattere monetario può avere degli effetti nel breve periodo, rendendo le esportazioni cinese un po’ più care e le importazioni più a buon mercato, cosa che in ogni caso accadrebbe attraverso i differenziali di inflazione. Se il problema dura da 15 anni, le cause non possono essere monetarie, ma strutturali. In particolare, il governo cinese, permeato da un misto di memorie dell’ideologia comunista secondo solo risparmi e investimenti contano, e di neoliberismo stile George Bush secondo cui quanto meno lo stato trasferisce ai cittadini, tanto meglio, continua a rifiutare ad impegnarsi con vigore in programmi che favorirebbero il consumo ed il benessere dei cittadini.
Con i suoi 2500 miliardi di surplus, la Cina potrebbe rinforzare l’asfittico sistema pensionistico e migliorare la modesta assistenza sanitaria pubblica. I dati suggeriscono che una parte importante del risparmio delle famiglie urbane è legato al timore di malattie in età avanzata. Chiaramente, un’assistenza pubblica migliore ridurrebbe tale urgenza di risparmio e migliorerebbe la vita di decine di milioni di persone. Purtroppo, l’ideologia economica che viene importata dai giovani cinesi che si educano nelle università americane si nutre del pregiudizio d’oltre oceano che tutto ciò sarebbe pericoloso, e foriero di grandi disastri economici, come quello già sperimentato dei paesi europei. Forse varrebbe la pena di pagare a cittadini e dirigenti cinesi qualche viaggio attraverso i paesi europei per mostrare loro che, pur tra tanti problemi, il modello Europeo non è quella catastrofe che talora viene loro descritta, e che la crescita senza un’enfasi bilanciata sulla qualità della vita non è un affare così virtuoso. Mi verrebbe da dire che lo squilibrio richiede “una rivoluzione culturale”, ma parlando della Cina meglio non fare confusione.
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