Come si può portare qualcosa che è nato ed è sempre stato in strada dentro ad un museo senza trasformarlo?
È la domanda che divide estimatori e critici della musealizzazione della Street art.
Certo dal punto di vista della commercializzazione, le operazioni di questo tipo sono un successo. Ne è la prova quanto sta accadendo al Museo delle culture di Milano (Mudec) dove le code per entrare a vedere A visual protest. The art of Bansky spesso superano le due ore. La mostra non presenta lavori sottratti agli spazi pubblici e tenta una storicizzazione del lavoro di quello che è probabilmente il più noto degli street artist, ma reca comunque la dicitura “non autorizzata” e per gli street artist più duri è comunque una forma inaccettabile di privatizzazione dell’arte pubblica.
Se come scrive Banksy “il bordo di un canale è un posto più interessante per l’arte di un museo” qual è il senso di portare le sue opere in un Museo, o di contrastarne il naturale deteriorarsi fino a sparire? E più in generale qual è il ruolo di questa forma di protesta visiva che alcuni esitano a definire arte?
A questi e altri interrogativi rispondono questa settimana a "Voci dipinte" Gianni Mercurio, curatore della mostra del Mudec, e lo street artist Pierpaolo Perretta.
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