Architettura

Sull’isola deserta

Viaggio in un arcipelago di progetti architettonici

  • 29 aprile, 11:15
  • 30 aprile, 10:55
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Di: Vanni Bianconi

L’immaginazione ha qualcosa di divino

Se questa formulazione vi sembra scontata, sono sulla pista buona. Perché la voglio sciogliere, farla piovere e riportarla sulla terra, dove significa: “trattiamo l’immaginazione come fosse una divinità”. Vale a dire, la riveriamo, la tiriamo fuori quando siamo alle strette, se non abbiamo nient’altro di positivo da dire: la nominiamo in vano, in tutti gli ambiti, senza davvero chiederci cosa sia.

Così vi propongo un percorso associativo su alcune proprietà della nostra immaginazione, che parte da un testo acquatico di Gilles Deleuze, cerca di solidificarsi con due esempi architettonici, e termina su un’isola deserta.

Isola continentale

“I geografi affermano che vi sono due tipi di isole” scrive Deleuze. “Si tratta di un’informazione preziosa per l’immaginazione poiché essa vi trova una conferma di ciò che già sapeva”. Anche l’immaginazione ha bisogno di conferme, di protezione.

Le isole, spiegano i geografi, sono oceaniche o continentali. Quelle continentali sono derivate, “separate da un continente, nate da una disarticolazione, da un’erosione, una frattura, esse sopravvivono all’inabissarsi di tutto ciò che le tratteneva”. Le caratterizza la memoria, perfino la nostalgia, l’anelo a una condizione originaria, e questo vale, a tratti, per l’immaginazione: l’immaginazione opera, a tratti, come un’isola continentale.

Ma niente in tutto ciò è statico, o rassicurante, in quanto si fonda sulla consapevolezza che gli elementi, l’acqua e la terra, si oppongono e si combattono, hanno orrore l’uno dell’altro. La stessa esistenza delle isole, continentali o oceaniche, giustifica la nostra inquietudine.

Casa Gabriella

Un secolo fa in una casa sulle rive del Lago Verbano, mentre sul continente elementi altrettanto opposti emergevano dal sonno della storia, o erodevano i sogni razionali e progressisti, si sono create le condizioni dell’isola continentale. O piuttosto, sono state create, dalla padrona di casa.

Olga Fröbe-Kapteyn si trasferì a Casa Gabriella nel 1920 e iniziò a trasformare una casa di pescatori, nata come spontaneamente, da molte mani, in un labirinto votato all’incontro. Un labirinto perché, appunto, l’immaginazione ha bisogno anche di muri, non soltanto di ponti, e Fröbe-Kapteyn creò muri solidi e accoglienti, dal terrazzamento del giardino, dove crescono le piante portate dai suoi ospiti, alle stanzette, gli annessi, i moli e le alcove (popolate dagli idoli e dagli artefatti, portati dai suoi ospiti). Al centro di questo labirinto, un tavolo rotondo, e attorno a quel tavolo, dal 1933, si sono ritrovati i più grandi studiosi della psiche e delle religioni, “delle immagini e delle forze archetipali nei loro rapporti con l’individuo”.

Appena si menzionano i Colloqui di Eranos si srotola la lista dei nomi illustri, ma in questo caso ci interessa la struttura che accoglie, l’architettura come ospitalità spaziale, quasi come archetipo, nella seconda fase della concezione di Jung: “l’archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in una determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni”.

Questo sono state e, per definizione, continuano a essere Casa Gabriella e la Fondazione Eranos: un labirinto che, separandosi dal mondo esterno, crea le condizioni, o getta le fondamenta (muri a loro volta), per un lavoro dell’immaginazione che segue il filo della memoria. La qualità dello spazio diventa una qualità del tempo, e così qualcosa che era intero torna ad attivarsi, può ricomporsi, ma trasformato – grazie alla cura per i cocci del vaso che torniamo a incollare e la sua simmetria che non ci appare più scontata –, nel presente.

Isola oceanica

Il filo della memoria, il filo di Arianna, è uno dei due modi per districarsi nel labirinto. L’altro è il volo, le ali costruite dallo stesso artefice, da Dedalo, l’architetto del labirinto del Minotauro. E in volo arriviamo alle isole oceaniche. Quelle originarie, originanti, che fanno emergere un movimento dei fondali, “testimoniano che la terra è ancora là, sotto il mare, e riunisce le proprie forze per fare esplodere la superficie”.

La superficie esplode, e dov’era solo acqua compare qualcosa di diverso. L’isola oceanica crea uno spazio dove le increspature delle onde vanno a infrangersi, generando l’urto, il contrasto che dà forma a cos’era in potenza, indefinito. Come le increspature dei tasti della tastiera, che potrebbero formare tutte le parole, o nessuna; come un mare di creta. E, chiaramente, l’immaginazione opera anche in questo modo, come isola oceanica. Iniziamo a battere sui tasti. Affondiamo le mani nella creta. Nell’oceano, dal doppio fondo della vita acquatica erutta la forza tellurica, e sulla sua superficie, il cataclisma, un’isola si forma. L’isola è l’isola e la X del tesoro al contempo, il tesoro è la possibilità di una mappa. La Y, allora, è il bivio, è l’esitazione – essere o non essere, should I stay or should I go. O ancora, semplicemente, “e/o”, non a caso i tasti più consumati sulla tastiera del poeta Giorgio Orelli:

Volevo dirti che mi sono accorto
solo adesso della totale scomparsa,
a sinistra, di E, di O a destra.
Il tasto è nero ma sempre lucente,
se batto (eternamente con due dita) continuo
a vederle, bianchissime, intatte
o quasi, come, là in basso, la X.

Ca’ del Tero

Ora, per illustrare l’eruzione originante dell’isola oceanica in termini architettonici scelgo un esempio anti-intuitivo ma per questo, spero, particolarmente significativo.

Un progetto archeologico e archivistico, che quindi in superficie parrebbe “continentale”, ma stiamo parlando di isole generate dai movimenti dei fondali, ed è lì che va cercata la loro essenza. Sono il contrasto esplosivo con quanto le sommerge, e il panico amletico dell’esitazione, che le contrappongono alle altre isole con la loro malinconia per ciò che non è più, e la loro certezza nell’agnizione.

Ci troviamo ancora sulle rive del Lago Verbano, solo un po’ più a monte, a Minusio, in un mare di ecomostri e blocchi abitativi che danno il retro su ogni lato, impilati gli uni sugli altri per affacciarsi verso il lago ridotto al cioccolatino nel calendario dell’avvento: è quell’apertura la loro unica funzione, e solo i bambini più curiosi o spaventati vanno a esplorare la misera struttura di cartone o la plastichetta che ospitava il cioccolato. Eppure quando si passa per queste strade è un perenne 26 dicembre, sportellini aperti sul vuoto di una concezione usa-e-getta dell’abitare.

Due giovani architetti, Lukas Bartke e Marina Pedrazzini, sono tornati da Berlino per ampliare una casetta apparentemente anni ’50 inserita in quel contesto. Scoperta la struttura ottocentesca originaria, hanno convinto i committenti a rimpicciolire l’edificio. A raddoppiarlo, in qualche modo, intervenendo su un rustico adiacente abbandonato. Ad ascoltare lo sguardo di un altro tempo, non diretto verso il lago ma, con un dinamismo delle facciate sorprendente, verso i lati e dietro verso il bosco, con inquadrature scenografiche dei dintorni, e al contempo una segretezza degli interni garantita dallo spessore delle pareti in sasso. Tutto questo, con una sensibilità contemporanea per temi come il riuso e la combinazione dei materiali, lo spazio (hanno ricreato l’unico tratto della via dove i pedoni non sono schiacciati dalle auto) e il tempo (una durata prevista per più generazioni, più utilizzi).

A me ricorda il gioco, serio, di un architetto come Amin Taha, che a Londra costruisce con monumentali materiali di scarto nel progetto 15 Clerkenwell Close, o ricreando una facciata vittoriana in terracotta, con distorsioni e imprecisioni volontarie, che non combacia con la struttura dell’interno, nel progetto 168 Upper Street:

amin-taha-groupworks-168-upper-street-london-housing_dezeen_2364_hero_1-852x516.jpg

In nessuno di questi progetti trovo qualcosa di nostalgico: il passato fornisce gli elementi ma è un fattore episodico, ci fosse stata una cartiera dismessa avrebbero costruito in carta, e in grasso umano se c’era una clinica di liposuzione: quello che conta è l’irrompere di una sensibilità diversa che contrasta una deriva inconsapevole, un abbiamo-sempre-fatto-così senza fondamento. Così è il gesto a essere “continentale” o “oceanico”: un restauro o una rottura (e la rottura può prendere la forma di un restauro, e viceversa). Il volo, il filo.

Isola deserta

E, nel labirinto dei giorni comuni, noi.

Acqua nell’oceano, creta sulla terraferma, conosciamo anche la pace e la tranquillità.

Se queste durano il tempo di una riga bianca, è perché, con Simone Weil, i bisogni dell’animo umano possono venire enumerati in binomi di opposti, che si equilibrano e completano: ha bisogno di sicurezza e di rischio, di obbedienza e di libertà. Per questo ci siamo trovati e ci troveremo tutti, pur nel labirinto dei giorni comuni, sull’isola deserta, ed è a questi Robinson in noi che sto parlando.

In quei momenti, il rischio più grande è attenersi al riturale propiziatorio, tronfi o vittimisti, senza fede nell’immaginazione e senza il sacrificio necessario. Proprio di Robinson, Deleuze scrive “La ricreazione mitica del mondo a partire dall’isola deserta ha lasciato il posto alla ricomposizione della vita quotidiana borghese a partire da un capitale. Tutto è ricavato dalla nave, nulla è inventato, tutto viene utilizzato faticosamente sull’isola. […] Il compagno di Robinson non è Eva ma Venerdì, docile al lavoro, felice di essere schiavo, troppo in fretta disgustato dall’antropofagia. Qualunque lettore sano sognerebbe di vedere alla fine Robinson divorato”.

È lì, invece, che siamo chiamati a rispondere, quello è il momento dell’inquietudine accolta, della contraddizione rivelata e dell’immaginazione: il momento per divorarci, come l’acqua la terra, come la terra l’acqua.

Se, malgrado l’orrore reciproco, gli opposti si inseminano e se, malgrado la nostra vigliaccheria, portiamo il travaglio a compimento, l’immaginazione genera qualcosa che non c’era.

E in questo (consustanziazione di miracoli? trinità di improbabili?) c’è qualcosa di divino.

Puntata 2

Home video 28.04.2024, 20:40

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