Musica Pop

Ecco il film su Amy Winehouse (con tanto di critiche)

Back to Black è da giovedì scorso nelle sale della Svizzera italiana. Un lungo viaggio nei luoghi della cantante inglese

  • 28 aprile, 20:17
  • 28 aprile, 20:20
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Di: Michele Serra

Back to Black non è granché, ma non lamentiamoci di chi “sfrutta” Amy Winehouse. Ogni volta che esce un biopic musicale, parte della critica si lamenta della mancanza di “rispetto” nei confronti di musicisti morti. Sarebbe meglio che ci preoccupassimo solo del fatto che i film sono brutti.

Film nuovi, storie vecchie, stessi problemi. Oh, bè, almeno c’è la musica. I film biografici che raccontano le vite dei musicisti non sono certo una novità, a Hollywood: amatissimi dai grandi studi, dai giurati dell’Academy, dal pubblico pagante. L’ultimo decennio ha portato sullo schermo – cito a memoria, so che dimenticherò qualcuno – James Brown, NWA, Queen, Elton John, Brian Wilson, Tupac, Elvis Presley. E nelle prossime stagioni i biopic musicali sono destinati a moltiplicarsi, fino all’estremo: Sam Mendes ha annunciato che nel 2027 vedranno la luce i suoi quattro lungometraggi sui Beatles, uno per ogni componente del gruppo. Ancora non conosciamo, ovviamente, i particolari su realizzazione e distribuzione, ma è probabile che l’idea sia quella di creare una specie di miniserie, da proiettare nelle sale invece che mandare in streaming direttamente nelle tv di casa. Un Beatles Cinematic Universe, o quasi. Non so dire se sia più interessante o inquietante, ma se non altro dimostra che non solo i film biografici-musicali sono sempre esistiti, continueremo a vederne per un bel pezzo. Il che significa, probabilmente, che continueremo anche a sentire le stesse critiche.

Giovedì 25 aprile è arrivato nelle sale della Svizzera italiana Back to Black, dedicato alla vita di Amy Winehouse. Diretto da Sam Taylor-Johnson, è stato accompagnato fin dal primo annuncio da una critica, che poi è – appunto – la solita: il film sfrutta senza pudore la memoria di una grande artista, ovviamente allo scopo di fare soldi. L’abbiamo sentita già in altri casi, e stavolta è arrivata addirittura in forma preventiva, prima dell’uscita del film (con corrispondente difesa preventiva da parte della regista). Ma è giusto chiedere rispetto, a chi fa un film su un artista morto? E cosa sarebbe, poi, questo rispetto?

Iniziamo con il dire che Back to Black, in particolare, è un biopic tra il medio e il mediocre: la regia di Sam Taylor-Johnson è più la seconda (molto meglio il suo altro film biografico, su John Lennon, Nowhere Boy), in compenso la musica è – ovviamente – meravigliosa e le performance degli attori più che all’altezza, a cominciare dalla protagonista Marisa Abela. Vista finora in ruoli minori e serie tv, la Abela prende molto sul serio il suo appuntamento con la storia, cantando perfino – il che denota se non altro un certo coraggio. E se qualcuno oltremanica (come la critica del Guardian Wendy Ide) ha definito troppo “masticato” il suo accento londinese, bè, sono problemi che non tangono chi vedrà la versione doppiata in italiano.

Back to Black è molto lontano dal precedente Amy diretto da Asif Kapadia nel 2015, sia nella forma – lì un documentario, qui un classico biografico – che nei modi di trattare la vicenda umana della Winehouse: se Amy era molto intimo e molto triste, qui il trattamento hollywoodiano tende a rendere tutto meno estremo. Non è un caso se il padre, Mitch Winehouse, questa volta non si è lamentato: lui, che nel documentario appariva un bieco sfruttatore (ecco la parola che ritorna), qui viene rappresentato in maniera nettamente più empatica. E allo stesso modo, il marito Blake Fielder-Civil (sposato dal 2007 al 2009) risulta un uomo pieno di difetti, ma fondamentalmente animato da buone intenzioni. In generale, la mano di Sam Taylor-Johnson è più delicata di quella di Asif Kapadia, e questo era prevedibile. Si può dire si tratti di una versione sterilizzata della vita di Amy Winehouse, ma più semplicemente si tratta del classico tentativo hollywoodiano di dare al pubblico “quello che vuole”: un greatest hits veloce della vita e della carriera di Amy, che aderisca nel modo più preciso possibile allo stereotipo winehousiano. Non stupisce che il film ripercorra molto velocemente le tappe iniziali della carriera della sua protagonista: tempo 25 minuti, Marisa Abela è già la Amy che tutti conoscono, completa di successo mostruoso, tatuaggi e acconciatura che farebbe la felicità di un apicultore. Anche la scelta di concentrarsi sulla relazione con Fielder-Civil non è altro che un ulteriore tentativo di rendere la pellicola più mainstream: parlare del modo in cui l’industria discografica abbia assecondato la spinta autodistruttiva di Amy sarebbe stato certamente più complicato che raccontare una storia d’amore disfunzionale. La seconda, la capiscono tutti.

Dunque, detto della qualità del film, torniamo alla critica fondamentale: la mancanza di rispetto, lo sfruttamento. Come definirla, se non poso sensata, e fondamentalmente infantile? Un film biografico è di per sé sfruttamento economico della storia personale e artistica di un musicista, nonché dei sentimenti e della nostalgia del pubblico. La nostra ossessione per l’autenticità, in un’epoca in cui questa parola ha sempre meno senso, arriva al punto di farci dire che un film non può fare le cose che i film hanno sempre fatto: piegare la verità per metterla al servizio di una redditizia narrazione cinematografica. Ma chi ha più di dieci anni, può davvero stupirsi di questo?

Sarebbe più semplice e corretto dire che detestiamo la prevedibilità delle scelte visive della regista, la piattezza della sceneggiatura, il tentativo di banalizzare l’immagine di un’artista che voleva essere tutto tranne che mainstream (e, come spesso capita, è diventata ancora di più: un’icona pop). Possiamo perfino arrivare ad affermare che il film probabilmente non sarebbe piaciuto a Amy Winehouse. Il resto, però, è poco più che moralismo. Roba, scrivevo poco sopra, che abbiamo già sentito.

Per fortuna c’è la musica. Non solo quella di Amy Winehouse, ma anche quella composta per il film da Nick Cave e Warren Ellis. Vale la pena ascoltarla anche senza immagini. O forse, in questo caso, meglio senza immagini.

“Le Temps” con Andrée-Marie Dussault

Stampa Nazionale 24.04.2024, 08:02

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  • Hollywood

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