«Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, fazzo i mattoni anche me’, ma la casa mia n’dov’è?». La domanda la poneva Calzinazz (Calcinaccio), il manovale impegnato in un cantiere nella Rimini degli anni Trenta del Novecento, in Amarcord di Federico Fellini, film del 1973.
In Europa però, con altri accenti e altri idiomi, la domanda «la casa mia dov’è? », in realtà già da decenni affliggeva migliaia di persone che affluivano nelle città richiamate dalla speranza di trovare lavoro nelle industrie nascenti. Inizialmente, l’assenza di una gestione urbanistica di quell’immigrazione incontrollata, portò all’edificazione di quartieri operai attorno alle fabbriche, ovvero di caseggiati con densità di abitanti elevatissime, privi di ogni servizio e conseguentemente con condizioni igieniche pessime.
Verso la fine del XIX secolo la situazione nelle città divenne però insostenibile, sia per il grande rischio di epidemie sia per il degrado urbano che gli agglomerati operai comportavano. Molti industriali decisero così di trasferire le fabbriche in zone rurali, costruendo nel contempo abitazioni “civili” per i lavoratori. Buon cuore? Non esattamente. Queste prime città sociali “di fondazione privata”, in realtà rappresentavano una sorta di do ut des, ossia a fronte delle migliori condizioni di vita che esse offrivano agli operai e alle loro famiglie, la richiesta era la totale subordinazione alla disciplina di fabbrica, la moralità familiare e la non partecipazione a scioperi o attività sindacali. L’obiettivo era raggiunto per mezzo di un controllo continuo sulla vita extra-lavorativa degli operai.
La realizzazione di città sociali si diffuse un po’ ovunque in Europa e tutte, più o meno, con le stesse caratteristiche “ideologiche”.
Due esempi sono significativi. Il primo è in Francia, nel villaggio di Noisel, costruito per gli operai di una azienda impegnata nella lavorazione del cioccolato. Emile-Justin Menier, proprietario e direttore della fabbrica, fece costruire la sua abitazione su un’altura dalla quale, come un antico feudatario, poteva controllare piazze e vie dell’intera cittadina operaia. Però: cosa meglio di un castello per definire chi possiede l’autorità? E’ quanto devono aver pensato Cristoforo Benigno Crespi e il figlio Silvio apprestandosi alla realizzazione del Villaggio di Crespi d’Adda, destinato agli operai e agli altri dipendenti della loro industria tessile. Il Villaggio, “dominato” appunto dal castello in stile medievale trecentesco, era sorto nel 1878 e, sull’onda di un’ideologia che mescolava paternalismo, filantropia e dottrina sociale di ispirazione cattolica, aveva lo scopo di dare a tutti i dipendenti una casa con giardino nonché i servizi necessari: dall’ospedale alla scuola, dalla chiesa al teatro. La distinzione sociale era garantita dalle differenze delle abitazioni: sobrie e normali per gli operai, un po’ più belle per gli impiegati, decisamente ammirevoli quelle per i dirigenti.
All’arrivo del XX secolo, però, la paura per la diffusione sempre più significativa delle idee socialiste tra i lavoratori, spinse il ceto medio e l’alta borghesia verso progetti di riforma volti a prevenire conflitti di classe. Gli industriali furono così indotti a trasformare le città sociali di loro proprietà in cooperative con amministrazioni autonome.
A Vienna, il primo dopoguerra, caratterizzato da inflazione fuori controllo e miseria, aveva fatto sì che nel 1919, alle prime elezioni libere e a suffragio universale per il Consiglio comunale della città, la maggioranza assoluta andasse al partito socialdemocratico. Ebbe inizio così il periodo cosiddetto della Vienna rossa che durò fino al 1934 e che si pose l’obiettivo prioritario di eliminare le condizioni di assoluta indigenza del proletariato.
Tra i primi progetti ci fu il tentativo di arginare l’emergenza abitativa che il crollo dell’Impero aveva provocato. Prese così avvio una politica edilizia pubblica residenziale che portò alla costruzione di oltre 64.000 Höfe, ossia condomini popolari. La loro progettazione faceva parte di una visione ideale che si riprometteva non solo di offrire una casa ai meno abbienti, ma di promuoverne la crescita sociale e culturale, anche esteticamente. La costruzione degli Höfe, infatti, fu affidata anche a architetti che negli anni avevano contribuito all’edificazione dei palazzi art déco: simbolicamente ciò significava che se l’edilizia dei decenni precedenti aveva promosso borghesia e nobiltà, la nuova edilizia viennese avrebbe messo “al centro” il proletariato e voleva farlo “con stile”.
Il primo Hof, venne realizzato proprio nel 1919 e da subito aveva lasciato intravvedere il grande salto di qualità in arrivo: gli appartamenti avevano la cucina arredata nonché servizi e spazi comuni, tutte cose impensabili fino ad allora. Dopo questa prima costruzione ne seguirono ben 380, di cui 24 monumentali.
In che senso “monumentali”?
Per capirlo basta osservare il Karl-Marx-Hof: un palazzo con un fronte di ben 1.100 metri e 1.382 appartamenti di 30 o 60 metri quadrati. L’edificio, inaugurato solo nel 1933, rappresentò la summa di tutte le progettazioni, anche ideali, che avevano caratterizzato la filosofia politica e sociale in tema di edilizia popolare. Progettato dall’architetto Karl Ehn (1884-1959), era infatti provvisto di due scuole materne, un centro di consulenza per le donne in gravidanza, ambulatori medici e odontoiatrici, campi sportivi, aree giochi, una biblioteca, caffetterie e oltre venti negozi, una biblioteca, un ufficio postale, due lavanderie.
Purtoppo, però, questo approccio all’edilizia popolare, un’utopia che si faceva realtà, non aveva fatto i conti con la storia: non solo la crisi del ’29 aveva quasi sospeso l’attività edilizia, ma in più era cambiato Il vento: in Europa era arrivato il tempo dei fascismi e del nazionalsocialismo, con ben altri progetti nella testa.
La Vienna Rossa. Utopia sociale e architettura
Laser 03.03.2021, 09:00