Architettura

Un’architettura per la comunità

Creare un corpo organico, tra obbligo e dono

  • 22 aprile, 11:48
Case popolari Rino Tami 1948
Di: Vanni Bianconi

La parola “comunità” è una di quelle che segna la nostra epoca: prendendo forse il testimone da “comunione” o “comunismo”, la dimensione comunitaria, che sia indigena o virtuale, da inventare o salvaguardare, è imprescindibile a tutti i livelli, politico e sociale, artistico e sportivo, internazionale o di quartiere.

Nel Regno Unito, che ci ha dato la parola “slogan” (dal gaelico scozzese sluagh ghairm, “grido di guerra”), non c’è bando, programma di sala o proclama che non contenga la parola “community” – con lo stesso effetto di quando si ripete una parola così spesso da perderne il significato, che poi va ricercato nel concreto, per esempio, dell’esperienza personale o del luogo in cui si abita, o entrambi.

A Londra mi è capitato di vivere in tre grandi progetti abitativi comunitari, di tre epoche diverse. Quello contemporaneo, in cui vivo tutt’ora grazie a un programma chiamato “shared ownership”, riflette meramente la patina – simile alle infinite mani di pittura, le moquette o le lastre di mattoni finti – posata su un totale disinteresse, o meglio su interessi esclusivamente finanziari. Le aree comuni sono lasciate all’abbandono (tanto da recuperare ogni tanto, per assurdo, una valenza sociale, come quando nel vano rifiuti un senzatetto aveva costruito casa), il praticello in finta erba dove i bambini giocavano su tre tristi tigri è tagliato in due da una palizzata che privilegia le superfici commerciali, fantomatiche spese condominiali hanno raggiunto il costo dell’affitto sociale.

Più interessanti, pur nel loro fallimento, gli altri due progetti, precedenti alla moda comunitaria attuale (moda giusta e buona, sia chiaro, ma sempre moda). Il meraviglioso mostro utopico che è il Barbican, progetto avviato a fine anni ’50 e ultimato nel 1982, capolavoro assoluto del brutalismo architettonico, sorto su una superficie bombardata all’interno della City, con corsi d’acqua e pagode (ma sempre di cemento scalpellato) sommerse, passaggi sopraelevati e serre, gallerie d’arte, biblioteca, sale da concerti (sede della LSO), teatri e cinema. Con una popolazione di quattromila abitanti, è un villaggio, ma nel prato riservato ai residenti in una domenica di sole ci si trova al massimo in dieci, e le conversazioni da ascensore sono ridotte a chi ha il piano più alto. Le auto parcheggiate nei garage rivelano che se fosse una comunità sarebbe un club esclusivo, ma neanche questo accade: la propria abitazione è un contesto privato.

Se ormai il Barbican è irrimediabilmente upper-class, a due passi dal progetto middle-class dove vivo ora c’è il terzo, dichiaratamente working-class a partire dal nome: la Loveless House, su Diss street (traducibile come la Casa senza amore, su Strada dell’insulto), parte del Dorset Estate completato nel 1957.

Berthold Lubetkin, un architetto sovietico-georgiano emigrato a Londra, ha combinato materiali poveri e modulari con inventività di forme, dinamismo di facciata e pianta (due corpi a Y uniti da un UFO semi-sospeso), e il “condensatore sociale” delle scale, con il loro slancio elicoidale all’interno di un vano angolare e aperto all’aria. Questa bellezza avrebbe dovuto invitare gli abitanti a uscire dagli appartamenti angusti, incontrarsi e “fare comunità”. L’ho visto succedere una volta, per una forte nevicata, altrimenti ci si trovano soltanto studenti di architettura, troupe cinematografiche o chi è troppo alterato per ritrovare la sua porta tra le tante così simili.

Londra, di Vanni Bianconi

Le città Invisibili 01.10.2022, 16:00

  • Cristiana Depedrini

Ma se “comunità” è uno slogan del nostro tempo non posso limitarmi a esempi del passato. Prendo spunto da una mostra in corso al Museum für Gestaltung di Zurigo, dedicata al lavoro dell’architetta messicana Tatiana Bilbao.

Anche qui lo si capisce dal titolo, Tatiana Bilbao – un’architettura per la comunità: il suo lavoro sperimenta dimensioni comunitarie, collettive, collaborative. Un progetto famoso, in questa chiave, è quello per il complesso abitativo a pigione moderata di Ciudad Acuña (Messico) finalista al premio Woman Architect of the World 2016, un progetto-prototipo che dovrebbe venire riproposto anche in altre parti del Paese. Entusiasmante nei suoi presupposti modulari, e guardandolo in fotografia, è stato però criticato aspramente tanto dalla critica quanto dagli inquilini, in termini molto diversi ma che rimandano sempre a un eccesso di astrazione, a una mancata attenzione per i bisogni personali o per il contesto, tanto sociale quanto paesaggistico – preoccupazione che si acuisce pensando di realizzarlo in altre regioni, altri climi, altri ambienti.

Con questo non intendo certo sostenere che un contesto abitativo non possa “creare comunità” – rimanendo in Messico, mi viene in mente il quartiere malfamato di Tepito, al centro di Città del Messico, dove un reticolo di aperture tra un appartamento e l’altro permette di fuggire dalla polizia, ma è anche segno di una condivisione dello spazio, della casa, del quartiere che tra l’altro, quando si entra a farne parte, lo rende una delle zone più sicure della città – come del resto succede nelle favelas del Brasile. Oppure, tornando a Londra, le lunghe file di case vittoriane delle zone povere dell’East End dove fino a inizio Novecento, a quanto si legge nei libri di storia (tra cui l’incredibile Il popolo dell’abisso di Jack London), la strada fungeva da spazio comune, e le famiglie mettevano in gioco le risorse di tempo, cibo, assistenza e attenzione le une con le altre.

Né mi sogno di suggerire che questa dimensione possa prendere vita solo in modo spontaneo e incontrollato, o solo in situazioni di povertà o assenza dello stato sociale, e che l’architettura possa al massimo aspirare al monumento al potere, millenario o secolare, o all’individuo, che sia la tomba o un autoritratto (vedi Casa Malaparte, secondo Curzio, un “ritratto pietra”, “una casa come me”).

Quello che mi chiedo è se non sia necessario, per “creare comunità”, mantenere un legame con lo spirito del luogo. Per rimanere alla radice com-: lavorare di compostaggio, far fermentare, innestarsi in ciò che esiste, trasformandolo sì, ma senza applicare un’idea astratta su una tabula rasa. Del resto, una definizione di comunità è un gruppo di persone che crea un corpo organico. Quanto alla sua etimologia, al cum- segue munus, che è sia “obbligo” sia “dono”.

Due esempi in questo senso, e stavolta in Ticino, sono il Pastificio del Ponte dei Cavalli a Cavigliano, e le case popolari del ’48 di Rino Tami a Lugano.

Negli anni ’80, quando il pastificio non era più in funzione, l’architetto Tobias Ammann l’ha ristrutturato in unità abitative e atelier, mantenendo così un rapporto con l’operosità che ha sempre contraddistinto questo grattacielo a testa in giù a strapiombo sull’Isorno. Questa combinazione ha attratto una serie di artisti, fotografi, architetti che lì lavoravano di giorno e discutevano dell’operato la sera (nel primo ristorante di Meret Bissegger, anche quello un laboratorio), e così quotidianamente, per una quindicina d’anni. Una comunità.

I fratelli Tami invece hanno vinto un concorso della città di Lugano, per fare fronte ai bisogni dell’immediato dopoguerra. Il loro progetto si inserisce sì in una zona allora disabitata, ed è sì concepito come prototipo per altre case popolari da realizzare in altre parti del cantone. Ma l’attenzione alle necessità degli inquilini è reale e dettagliata, dall’altezza del piano cucina agli orti condivisi, in tutto e per tutto è la funzione che detta l’estetica, e queste case popolari continuano a essere adatte agli inquilini odierni: alcuni di loro sono lì da sempre, alcuni sono perfino ritornati dopo aver vissuto in appartamenti forniti di tutti i confort, altri sono giovani, tanti artisti e artigiani anche qui. Queste persone si conoscono, interagiscono, ognuno a modo suo, con la casa e gli altri inquilini: hanno un rapporto, con la casa e gli altri inquilini, in equilibrio tra l’obbligo e il dono.

Queste due case si raccontano in questo episodio di “Home Video. Storie di case e di architetti”, andato in onda su RSI La1 il 21 aprile.

Puntata 1

Home video 21.04.2024, 20:40

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