di Ivan Zippilli
Pur non essendo, e pur essendo, una notizia clamorosa il licenziamento di Patrick Fischer (e Peter Andersson) da parte dell’Hockey Club Lugano assume i contorni della notizia bomba, anche se di controcanto, era nell’aria. È il classico fulmine a ciel sereno di quando però in lontananza, si sente borbottare. Ma allora perché ci troviamo nella strana situazione in cui è difficile e quasi paradossale decidere se siamo sorpresi oppure no?
Patrick Fischer è l’uomo su cui più di ogni altro si è puntato negli ultimi 10 anni a Lugano. Carta bianca, fiducia al limite della fede, sostegno incondizionato. Per lui la società ha deciso di lanciarsi in investimenti importanti, ne ha sfruttato il carisma e la conseguente capacità di attirare giocatori di blasone ma non a fine carriera (su tutti Brunner, Furrer, Hofmann). Ne ha condiviso le scelte e lo stile di conduzione. Per questo, e nonostante nessuno se lo aspettasse, il club bianconero, con decisione del 10 settembre scorso, sancì un preventivo rinnovo del contratto per due stagioni supplementari, fino al termine del campionato 2017/2018.
Paradosso per paradosso possiamo andare proprio a cercare in quel giorno la prima crepa. Perché se è vero che un rinnovo rappresenta sempre un atto di fiducia, nel caso specifico questo rinnovo è sembrato (forse con gli occhi di oggi) un atto di fiducia cieca, pur rientrando in qualche modo in un disegno generale fondamentalmente coerente. Un disegno da cui però si esce improvvisamente, in maniera tanto più dolorosa quanto più importanti sono stati gli investimenti, finanziari ed emotivi, del club e della stessa presidenza.
Ma si tratta di una decisione giusta?
Lo è, perché Patrick Fischer in questo biennio si è dimostrato un allenatore forse troppo sicuro dei suoi mezzi, se guardiamo alla sua giovane età e alla poca esperienza. Una caratteristica passata in poco tempo dal pregio (epurazioni, linea chiara, linguaggio schietto) al difetto (punizioni esemplari, linea dura, poca autocritica). Lo è perché Fischer ha palesato dei limiti piuttosto evidenti nella gestione delle forze a sua disposizione, limiti nascosti dalle strepitose prestazioni di Klasen e Pettersson, ma venuti a galla non appena i due svedesi si sono un po’ defilati. Lo è perché se Martensson è il centro perfetto per i due e poi non ci gioca mai assieme qualcosa non va. Lo è perché il Lugano è ultimo.
Non lo è, perché il nuovo progetto Lugano era costruito su Patrick Fischer, era nato con lui e per lui. Perché, risultati alla mano, la squadra ha perso ai quarti di finale contro il Ginevra ma ha chiuso al terzo posto in regular season, mostrandosi spesso spettacolare e a tratti irresistibile. Perché a questo progetto hanno evidentemente creduto anche Furrer, Hofmann, Brunner e Martensson, non quattro qualunque, e forse anche Diaz (in prospettiva). Perché se si costruisce lo si fa davvero, anche nelle difficoltà, mentre di colpi di spugna infruttuosi ne abbiamo visti anche troppi negli ultimi anni. Perché il Lugano è ultimo sì, ma mancano 35 partite e il quarto posto è a nove punti, i playoff a tre.
Come uscire dunque dal dilemma? Dicendo semplicemente che giusta o ingiusta la decisione presa dal club assume i caratteri dell’inevitabilità. Qualcosa andava fatto, qualcosa è stato fatto. Qualche sostenitore sarà d’accordo, qualche altro (non pochi) non lo sarà. Tutti però saranno delusi e sconfortati: perché tutti, o quasi, credevano nel nuovo corso, nella nuova filosofia, nella voglia di pianificare a lungo termine, nella nuova e rinata passione. Tutti, o quasi, vorranno presto sapere dove si va. Alla società il compito di dare delle risposte e di mostrare loro la nuova via.
I commenti
Contenuto audio
Il commento di Lorenzo Boscolo (Rete Uno Sport 22.10.2015, 12h30)
RSI Sport 22.10.2015, 14:19
Il commento di Omar Gargantini (Rete Uno Sport 23.10.2015, 07h00)
RSI Sport 23.10.2015, 09:09
Licenziamento Fischer, i servizi