Oggi, la storia

Paura del contagio

di Lina Bertola

  • 23 ottobre 2014, 09:05
Keystone_ Tute di protezione contro il virus dell'Ebola in Sierra Leone.JPG

Tute di protezione contro il virus dell'Ebola in Sierra Leone

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Oggi, la storia 23.10.14

Oggi, la storia 23.10.2014, 07:05

Noi non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché siamo mortali. Non so come verrà recepita questa semplicissima verità nel bel mezzo dell’emergenza Ebola. A qualcuno forse potrà sembrare una provocazione inopportuna perché in Africa – e voglio sottolinearlo, in Africa- oggi si muore perché ci si ammala di Ebola. Accetto la possibile obiezione e insisto: ci ammaliamo perché siamo mortali, ma non tutti, forse, siamo mortali allo stesso modo.

Il mondo occidentale si sta dando da fare per ottenere i mezzi finanziari per arginare il contagio, per proteggersi dal rischio che l’epidemia travalichi i confini; trovato il miliardo di dollari necessario l’America a presunto rischio si disinfetterà per bene. Ma intanto, nonostante le rassicurazioni dell’OMS, si diffonde la paura: una paura definita “ridicola” da alcuni osservatori competenti.
Piuttosto che considerarla ridicola, credo invece che questa paura possa dirci molto del nostro attuale modo di stare al mondo, della nostra difficoltà ad accogliere la vita con le sue fragilità. Il paradigma della “guerra” alle malattie abita infatti la nostra cultura anche in situazioni molto meno tragiche, come nel caso di una banale influenza stagionale o di una febbre a trentotto.
Ivan Illich, in un’opera importante, dal titolo significativo Nemesi medica, l’espropriazione della salute, ha mostrato come il progresso della medicina abbia comportato anche una progressiva medicalizzazione, e addirittura una sorta di iatrogenesi, ovvero di malattie generate dal sistema sanitario stesso.
Ciò può comportare ricadute non irrilevanti sulla percezione che ciascuno ha della propria vita. Quando consideriamo la malattia, ogni malattia, in modo indifferenziato, come un nemico da combattere, ne va della percezione della totalità del nostro essere, della sua autenticità, in cui lo star bene si intreccia con momenti di sofferenza. Ne va del rapporto più intimo con la vita nei suoi momenti di fragilità, che pure le appartengono e le danno un senso. Nella diagnosi medica che misura e racconta in modo oggettivo il nostro stato di salute, non c’è posto per una grammatica della vita che esprima la mia sofferenza.

Eppure, questa percezione soggettiva e qualitativa dell’essere malato era ben chiara allo sguardo di Ippocrate e della sua scuola di medicina, che certamente è, nel V-IV secolo avanti Cristo, una delle forme inaugurali della razionalità occidentale. Nella medicina ippocratica la realtà clinica della malattia prende forma dentro il racconto di colui che ne sta vivendo l’esperienza, dentro il cammino, originale e naturale, della sua vita. Questa saggezza della scienza antica mostra oggi la sua attualità in nuovi approcci della cultura medica che fanno ben sperare in un rapporto più sano con la natura del nostro vivere.

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