“È stato un periodo difficilissimo, durissimo, perché ogni giorno ero bombardata da mattina a sera.” Centinaia e centinaia di messaggi d’odio, insulti e minacce, per sei mesi hanno fatto sprofondare la granconsigliera Simona Genini in un profondo incubo. Sommersa da un’ondata di veleno dalla quale è riuscita a riemergere solo denunciando la persona che l’aveva presa di mira, condannata poi a tre mesi di detenzione sospesa per diffamazione, ingiuria, coazione e tentata estorsione. “Le parole sono un’arma” ammonisce oggi Genini.
Da un sondaggio di Patti chiari sottoposto a 150 esponenti della politica comunale e cantonale ticinese emerge che il 56 percento degli interrogati ha già subito messaggi d’odio online. Nel 37% dei casi si è trattato di insulti, nel 23% di messaggi diffamatori, nel 20% di minacce. Sette politici ticinesi sono addirittura stati ricattati.
Meret Schneider, consigliera nazionale verde zurighese, ne sa qualcosa. Dopo aver definito le piattaforme X e TikTok possibili minacce per la democrazia in un’intervista sulla Sonntagszeitung, è stata subissata da migliaia e migliaia di insulti da utenti di ogni angolo del globo, da esponenti di estrema destra tedeschi e fedelissimi di Elon Musk. La maggior parte dei commenti, oltretutto, si è scagliata con vigliaccheria contro l’aspetto fisico di Schneider, che da anni soffre di anoressia. “Che io piaccia o meno a me poco importa” commenta a qualche mese di distanza la consigliera nazionale con distacco “la libertà di parola va garantita”. Per le minacce di morte ricevute, precisa però Schneider, non può esserci nessuna tolleranza.
Se il progetto per una regolamentazione più severa dei social media, voluta dal Consiglio Federale, avanza a fatica a Berna, la legge ha tuttavia alcuni strumenti per agire. “Il diritto penale distingue comportamenti diversi - precisa l’avvocato Edy Salmina - I crimini d’odio sono le diffamazioni, le ingiurie, le calunnie, le minacce oppure la discriminazione razziale.” Non si tratta di comportamenti incivili, sono comportamenti punibili, reati. Occorre però renderle più semplici e celeri le procedure per facilitare le denunce, osserva Salmina, e rendere effettive le condanne.
I messaggi d’odio contro i politici ticinesi hanno un bersaglio privilegiato: le donne. L’80% dice di averne fatto esperienza, contro il 47 degli uomini. Colpisce soprattutto i poli: il 78% dei leghisti, il 75% dei verdi e il 66 dei socialisti denunciano di aver subito messaggi di odio. Un politico su cinque ha già pensato di metter fine alla propria carriera, proprio a causa dell’odio ricevuto.
Lisa Bosia Mirra è tra questi. Nell’agosto del 2016, l’allora granconsigliera socialista aiutò alcuni migranti stanziati in condizioni precarie a Como a passare clandestinamente il confine a Chiasso, per raggiungere i parenti in Germania. Questa iniziativa le valse una condanna in tribunale e una seconda, molto feroce, sui social, bombardata da una miriade di insulti. “Sono persone che in qualche modo accumulano dentro di sé un sacco di frustrazione, difficoltà sul lavoro, difficoltà sociali, mancanza di vita relazionale, eccetera. E trovano un capro espiatorio che in questo caso ero io” riflette oggi Lisa Bosia Mirra. In appello, il tribunale tenne conto della sofferenza patita sui social media e di conseguenza nella vita reale, concedendo all’attivista una riduzione della pena. “Però ti chiedi perché? Non ho ucciso nessuno, non ho rubato niente, non ho arrecato nessun danno.” A un decennio di distanza, Lisa Bosia Mirra, colpita anche da diverse minacce di morte, fatica a comprendere ciò che sia successo.
“La maggior parte degli utenti è passiva, non commenta. Poi c’è una minoranza attiva che scrive e c’è una minoranza di questa minoranza che è aggressiva.” Gli utenti problematici, precisa il docente di analisi politica dell’Università di Zurigo ed esperto di discorsi d’odio online Fabrizio Gilardi, si fanno sentire, ma rimangono un numero limitato. “Possiamo dire che probabilmente il 5% degli utenti attivi produce il 90% dei contenuti di questo tipo.” Contro i discorsi d’odio intervengono i filtri automatici delle piattaforme oppure i moderatori di blog e social media, con richiami all’ordine e in alcuni casi con la soppressione di alcuni commenti. La community sana può inoltre contribuire attraverso il cosiddetto “counterspeech“, una contronarrazione che dovrebbe far capire agli odiatori che il loro atteggiamento non è costruttivo.
Contro alcuni leoni da tastiera, nulla sembra però essere efficace.
Matteo Plicchi lo sa bene e oggi ammette di non riuscire a non odiare chi attraverso l’odio ha portato via suo figlio Vincent. Noto su TikTok con lo pseudonimo di “Inquisitor Ghost” Vincent fu vittima di una campagna denigratoria orchestrata da un paio di utenti per motivi futili e in breve tempo sfuggita completamente di mano. Le false accuse di pedofilia nei confronti del giovane bolognese Vincent hanno invaso il web tanto da spingerlo a togliersi la vita durante una sua ultima e tragica diretta TikTok. Contro gli aguzzini di Vincent la giustizia sembra impotente. “Perseguire un cittadino per istigazione al suicidio è difficile: qualcuno deve dirti tutti i giorni ucciditi, ucciditi, ucciditi. Altrimenti se un milione di persone ti dicono ucciditi online l’istigazione non c’è” commenta Matteo Plicchi con gli occhi lucidi. Rimane in piedi l’accusa di diffamazione. “Una barzelletta! Se sei incensurato te la cavi con una multa.”
L’odio online può infastidire, può avvelenare, può ferire e nei casi più estremi, può uccidere. Ma la conclusione di Matteo Plicchi è sconfortante.
“Solitamente, da qualsiasi esperienza vissuta si può trarre un insegnamento, imparare qualcosa che serve. Perdere un figlio non serve a niente, non ha nessuna utilità.”