Oggi, la storia

L’arte al potere

di Alessandro Stroppa

  • 12.06.2015, 09:05
John William Waterhouse, Il rimorso dell'imperatore Nerone dopo l'assassinio di sua madre, 1878

John William Waterhouse, Il rimorso dell'imperatore Nerone dopo l'assassinio di sua madre, 1878

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Oggi, la storia
Venerdì 12 giugno - 7.05

02:48
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Oggi, la storia 12.06.15

Oggi, la storia 12.06.2015, 07:05

Il 9 giugno del 68 moriva Lucio Domizio Enobarbo Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, noto alla storia semplicemente con il nome di Nerone: morto suicida dopo 14 anni di regno, in seguito alla ribellione delle armate degli eserciti che di lì a poco condusse ad una guerra civile, avrebbe trovato il coraggio di uccidersi solo grazie all’aiuto di un servo fedele, pronunciando quella paradossale battuta: «qualis artifex pereo!», «quale artista muore con me!». Se cerchiamo di dimenticare la tradizione “nera” che trapassò ai posteri intorno alla figura di Nerone, si può affermare che Roma ebbe in questo suo epigono della dinastia giulio-claudia un vero e proprio “artista al potere”. Asceso al trono da ambienti cronicamente votati al complotto e alla congiura (fu figlio di Agrippina Minore, la donna che ricorrendo al mitridatismo aveva avvelenato l’imperatore Claudio), Nerone fu risucchiato dalla spirale del potere, che tentò di dominare con risoluta e spietata efferatezza: proprio questo intendeva il poeta romanesco Gioachino Belli quando scrisse, in un celebre sonetto, che “Nerone era un Nerone, anzi un cagliostro, perché aveva l’anima più nera del carbone, del sangue delle seppie e dell’inchiostro”, alludendo certo ai delitti che gli furono imputati (come il fratricidio, il matricidio, l’uxoricidio e l’incendio di Roma).

La storiografia moderna ha tuttavia cercato di superare l’immagine stereotipata del Nerone tratteggiato dalle fonti antiche, che, come è noto, ebbe la ventura di cadere sotto la penna impietosa della storiografia di fronda senatoria, a lui apertamente ostile: un’ostilità peraltro motivata dall’ambiziosissimo progetto di questo giovane princeps di rivisitare la concezione stessa del Romanum imperium sulla base dell’ἀγών e del luxus, dell’agonismo inteso in senso greco-classico e del lusso sfrenato. Una concezione che mirava a coniugare il modello orientalistico (che peraltro esercitò un certo fascino su Giulio Cesare e su Marco Antonio) ad un modello tutto inedito, fondato sulla dittatura di un’arte barocca ante litteram (specie per la poesia, il canto, la danza) e dei concorsi agonistici, cioè di quel panem et circenses che il poeta satirico Giovenale vide come la summa della politica di Nerone. Pochi compresero e vollero comprendere la grandiosità del suo progetto, per quanto eccentrico e velleitario fosse: anzi, si preferì colpirlo con la damnatio memoriae, lui che, si narrò, di fronte allo spettacolo dell’incendium Urbis del 64 avrebbe declamato, con l’accompagnamento della cetra, dei versi che narravano il rogo della città di Troia.

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