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Clandestini per scelta

Off the road

di Corrado Antonini

  • 30.03.2014
  • 18 min
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18:28

Off the road

Clandestini per scelta 30.03.2014, 23:00

A esser sincero neppure sapevo che fossero esistite, le poetesse beat. Come molti altri ambiti, anche la letteratura beat è stata una faccenda in buona parte gestita da uomini e declinata al maschile. Questo non tanto per i nomi degli esponenti più celebrati (i Kerouac, i Ginsberg, i Burroughs), né per l’omosessualità dichiarata di molti di essi, quanto piuttosto perché l’immagine che gli scrittori beat restituivano della donna era figlia in buona parte dell’epoca e della morale in cui erano cresciuti. Donna come domestica e/o cameriera e/o ancella deputata al mantenimento del negozio casalingo.

La cosa è doppiamente singolare perché i beat, con tutto il loro declamare di liberazione della coscienza, in quanto a promozione dei diritti femminili, restarono al palo. C’è addirittura chi sostiene che contribuirono a marginalizzare se non proprio a reprimere la donna americana. È probabilmente eccessivo. Quel che è piuttosto vero è che ai beat di essere parte attiva della società americana importava poco o nulla, uomini o donne che fossero, e nel loro rifiuto delle norme imposte dalla società stessa (chiamiamolo pure edonismo anti-conformista) battersi per il riconoscimento dei diritti delle donne sarebbe stato un po’ come rivendicare un’appartenenza a un mondo che andava invece confutato. Un assurdo. Quanto a scovare un bel personaggio femminile in un libro di Kerouac, provateci. L’universo dei beat era un universo eminentemente maschile, improntato a preoccupazioni e desideri maschili, anche quando queste preoccupazioni e questi desideri valicavano il confine del socialmente o del sessualmente lecito.

Detto questo, da lì siamo transitati in tanti. Abbiamo seguito col fiato sospeso le scorribande di Dean Moriarty lungo le strade d’America, comprato i libri di Ginsberg e di Burroughs (letti poco e capiti meno, ma solo per pigrizia e inettitudine nostra, sia ben chiaro), e a San Francisco, fatalmente, abbiamo varcato la soglia del City Lights Bookstore di Lawrence Ferlinghetti (a proposito, l’ultimo dei beat ha da poco compiuto i 95 anni), colti dallo stesso stupore che altri sperimentano di fronte a un’opera d’arte. Ma appunto, le donne…? Tutto quanto ricordo sono le ragazze di Neal Cassady (Dean Moriarty, appunto), messe incinta e poi lasciate a casa perché c’era dell’altro asfalto da mettersi alle spalle. Il tutto, o quasi, in nome della Santità – Salinger, spietatissimo, amava liquidarli alla stregua di sicari dello zen.

È insomma uscito questo disco. S’intitola What’s up? Femmes poètes de la Beat Generation. In francese. Sì perché il disco è stato pensato in Francia dal musicista Jean-Marc Montera (il quale ci si offre come una sorta di Hal Willner transalpino), e prodotto da Radio France. Il nome di Hal Willner qui non spunta a caso. Willner ha avuto il merito, fra i tanti, di travasare il verbo beat in ambito musicale. Non è stato il solo a farlo e non è stato questo l’unico dei suoi meriti, ma i suoi dischi (penso in particolare a The lion for real, con le poesie e la recitazione di Allen Ginsberg, e Dead City Radio, testi e voce di William S. Burroughs) hanno forse dato al verso dei beat la miglior collocazione possibile. Dirò senza dubbio un’eresia (non è certo una novità), ma i testi dei beat al mio orecchio suonano meglio dentro un disco che non dentro un libro.

Le poetesse di cui Montera mette in musica i versi sono una piccola rappresentanza di un gruppo assai più vasto, anche se decisamente più en arrière plan rispetto agli omologhi maschi. In particolare qui l’attenzione si fissa su quattro autrici: Anne Waldman, ruth weiss (le iniziali minuscole sono volute), Janine Pommy Vega e Hettie Jones. Una voce recitante, la brava Sophie Gonthier, e un manipolo di musicisti fra cui spicca la chitarra di Noël Akchoté. L’esito è piacevole ma non aggiunge granché a quanto già fatto, nello stesso ambito, da Willner e compari oltre oceano o, su altri versanti, anche da artiste come Patti Smith. Il merito, semmai, è quello di aver aggiornato il fondale dei beat in music con del materiale prodotto da poetesse.

Non dimentichiamo che le donne della Beat Generation prima ancora che alla beat generation, come fa giustamente notare Jacqueline Starer introducendo il volume, appartenevano alla silent generation. Negli anni ’50, in America come altrove, le donne raramente prendevano la parola in pubblico. Queste donne lo fecero, e i loro testi, pur se sommersi, rischiano, oggi, di apparire persino più scandalosi di quelli dei loro omologhi maschi. Per una donna, allora, scrivere che la rispettabilità, il conformismo e la buona coscienza dell’America erano dei falsi miti, costava certamente più caro che non a un uomo. La compagna di Neal Cassady, il Dean Moriarty di On the road, anni fa scrisse un libro in cui dettagliava la tumultuosa relazione con l’eroe del romanzo di Kerouac e lo intitolò, con somma grazia e intelligenza Off the road. Dopo aver amato gli uomini che prendevano la strada, chissà, è forse è giunto il momento di amare anche quelle che rimasero a casa.

La scaletta della settimana:

- Across the water, Neneh Cherry, da Blank project, ed. Smalltown Supersound (2014)


- Open heart, Zara McFarlane, da If I knew her, ed. Brownswood (2014)


- Il est assis un homme, Léonore Boulanger, da Square Ouh La La, ed. Clouds Hill (2013)


- Mary salangann, Zanmari Baré, da Mayok Flér, ed. Cobalt (2013)


- Number song 1, Jean-Marc Montéra & Sophie Gonthier, da What's up? Femmes poètes de la Beat Generation, ed. Radio France (2013)


- Antilope, Get the blessing, da Lope and Antilope, ed. Naim Audio Limited (2014)

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