«Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla» la frase, attribuita a Lao Tzu, è perfetta per raccontare la nostra ossessione contemporanea per l’apocalisse. Viviamo infatti in un’epoca in cui la fine del mondo è evocata un po’ ovunque. Film, serie tivù, videogiochi, romanzi. Ma cosa ci affascina nell’immaginare la catastrofe? Perché siamo così attratti da ciò che, in teoria, dovrebbe spaventarci?
Forse perché, almeno nella finzione, quello è uno spazio sicuro. È un luogo dove possiamo confrontarci con l’idea di apocalisse senza esserne travolti per davvero. Perché ogni racconto post-apocalittico, in fondo, è un racconto di rinascita. In cui qualcuno, alla fine, resiste e trova una ragione per poter andare avanti. La fine del mondo diventa così specchio della possibilità di sopravvivere alla nostra stessa paura.
Dopotutto l’immaginario apocalittico abbraccia l’intera storia del cinema, da Nosferatu a L’esercito delle 12 scimmie, fino a serie come The Last of Us, Fallout e Pluribus che parlano di umanità e identità, più che di catastrofi.
Ospiti di Charlot, per raccontarci di come ogni epoca veda nella fine del mondo il riflesso delle proprie ansie e del proprio bisogno di senso, il critico cinematografico Giuseppe Ghigi, autore del saggio “Si salvi chi può! Cinema, apocalisse e altri disastri” (Marsilio, 2022) e lo scrittore e autore televisivo Emiliano Ereddia i cui romanzi “Il settimo cerchio” (Il Saggiatore, 2024) e “L’oltremondo” (Alessandro Polidoro Editore, 2025) s’ispirano proprio all’immaginario apocalittico.
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