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Clandestini per scelta

L'incubo del trolley

di Corrado Antonini

  • 13.4.2014
  • 18 min
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L'incubo del trolley

RSI New Articles 07.05.2014, 11:43

Non è strano che la ruota sia stata inventata dai Sumeri tremilacinquecento anni prima di Cristo ma il brevetto delle valigie a rotelle sia stato depositato solo nel 1970, dopo che eravamo stati sulla luna? L’inventore delle valigie a rotelle, a differenza dell’inventore della ruota, ha un nome, Bernard S. Sadow, il quale ricorda come la sua brillante idea sulle prime fosse stata accolta con molta freddezza (it was a very macho thing, dichiarò in proposito anni dopo. In vacanza, insomma, bisognava andarci da uomini, non da femminucce, sudando e imprecando per quanto la moglie s’era ostinata a portarsi dietro).

Non meno curioso il fatto che per il passaggio dalle valigie a quattro ruote a quelle a due ruote – il rollaboard o trolley – si dovette aspettare fino al 1988, quasi un ventennio dopo, quando Robert Plath, pilota delle Northwest Airlines, un bel mattino realizzò che per gente come lui, membri dell’equipaggio, trascinare il proprio bagaglio su due ruote anziché su quattro avrebbe facilitato gli spostamenti fra un gate e l’altro dell’aeroporto. Se il trolley ha avuto da allora la diffusione che sappiamo è forse anche grazie al fatto che è stato subito adottato da una categoria di persone (piloti d’aereo e hostess) che incarnano un che di intangibile e di sommamente esotico (la dimensione del fuso orario perenne, il cosmopolitismo all’ennesima potenza, la rassicurante bellezza dei sorrisi, l’avvenenza fisica, la riuscita sociale, eccetera). Ma il prodigioso avvento del trolley è probabilmente anche da ascrivere al nostro mutato modo di rapportarci al viaggio. Ci spostiamo tutti di più, e nel nostro spostamento è favorita la leggerezza e un altro grado di mobilità. Senza contare che volare ormai è alla portata di tutti, e che il tempo, come si suol dire, è denaro. Questo ha anche comportato la scomparsa di una categoria professionale che era connaturata al trasporto di valigie e affini: quella dei facchini o dei portantini (ma non ha vanificato il ruolo degli sherpa, attivi in luoghi dove le rotelle sono semmai d’ostacolo). Il buon Robert Plath, l’inventore del trolley, si ritrovò immortalato anche al cinema, interpretato da Harry Dean Stanton nel film This must be the place di Paolo Sorrentino, suscitando lo sbalordimento dello sfasato rocker impersonato da Sean Penn.

Ma perché mai il trolley in questa sede?, vi chiederete. Di mezzo, come al solito, c’è una canzone. Non il Mario Lavezzi di Valigia a rotelle, grazie al cielo, ma un musicista francese che risponde al nome di Albert Marcoeur. Marcoeur è nato a Digione nel 1947. Se cercate il suo nome in rete scoprirete che si porta addosso l’etichetta di Frank Zappa francese (in lingua inglese il tutto si trasforma in un simpatico calembour: French Zappa). Destino di molti artisti inclassificabili, quello di essere catalogati “a naso”, ma nel caso di Marcoeur l’accostamento zappiano, pur se da prendere con le pinze, è verosimile. Il suo primo disco, eponimo, risale a quarant’anni or sono, 1974; l’ultimo, Travaux pratiques, è del 2008. Più recente invece uno spettacolo denominato Si oui, oui. Si non, non che nel gennaio scorso ha fatto tappa anche in Svizzera, al teatro ABC di La Chaux-de-Fonds. Lo spettacolo, che sta girando proprio in queste settimane in diverse città francesi, si presenta sotto forma di un ciclo di canzoni per voce recitante e quartetto d’archi (il Quator Béla, composto da Frédéric Aurier, Julien Dieudegard, Julian Boutin e Luc Dedreuil, ensemble a proprio agio col repertorio contemporaneo). Premetto che lo spettacolo non l’ho visto, ma grazie ai colleghi di Espace 2 della Radio della Svizzera Romanda sono riuscito a entrare in possesso della registrazione.

Verdetto? Sicuramente che guidare un trolley è un’arte. Richiede una perizia e una grazia che non si improvvisa. Se accettiamo il proverbio donna al volante, pericolo costante, allora dovremmo anche accettare questo: uomini e rotelle, inciampi a catinelle. In quanto uomo da soma (sono nato prima del brevetto di Sadow), posso certificare che l’acquisizione dell’aplomb del conduttore di valigie a rotelle è un passaggio delicato sulla scala evolutiva del maschio. Senza considerare che, come emerge chiaramente dalla canzone di Albert Marcoeur – Les valises à roulettes – trolley e affini sono disegnati per superfici lisce, certificate dai test sull’assorbimento fonico e libere da ostacoli, non per il selciato urbano disseminato di buche e ingombri d’ogni genere (cartacce, binari del tram, dislivelli di marciapiede) che trasformano la guida del trolley nella replica del cocciuto avanzare di Klaus Kinski-Fitzcarraldo in Amazzonia. Questa è armonia. Il nostro è il tipico imbarazzo del primitivo di fronte all’innovazione tecnologica. Che altro aggiungere se non un accorato appello: cercasi hostess disposta ad elargire i rudimenti della guida di un trolley.

La scaletta della settimana:

- Sentirsi soli, Chet Baker, da Jazz on film: Chet Baker italian movies, ed. Moochin About (2014)


- Reverend moon, Infinite Loop, da One, ed. Unit (2014)


- Perversion, Les Boucles Absurdes, da Boîtes à tartines, ed. Off (2013)


- Les valises à roulettes, Albert Marcoeur & le Quator Béla, Si oui, oui. Si non, non, ed. Radio Suisse Romande (2014)


- Lost in death, pt. 2, Polar Bear, da In each and every one, ed. The Leaf Label (2014)

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