di Mario Casella
“È difficile far capire a chi non frequenta la montagna, il senso di ciò che faccio”. E’ una delle frasi che Ueli Steck amava ripetere a ogni nostro incontro davanti ad una tazza di buon caffè, una passione-dipendenza che condividevamo volentieri.
Ueli visitava a scadenze regolari il canton Ticino per rilassarsi tra amici, primo tra tutti Romolo Nottaris, himalaista della prima ora alle nostre latitudini, ma soprattutto attento scopritore di talenti. L’alpinista ticinese fu tra i primi a sostenere Steck quando il bernese era ancora un signor Nessuno nell’ambiente internazionale della montagna.
Le visite di Ueli a sud delle Alpi non erano però solo gite di piacere o per serate da tutto esaurito davanti al pubblico svizzero italiano. In queste occasioni Steck non faceva concessioni alla sua attenzione maniacale per l’allenamento: corse interminabili in salita, sedute intense di arrampicata e altro ancora.
Questa costanza e questa serietà nella cura di ogni dettaglio della sua preparazione gli hanno permesso di raggiungere i traguardi che tutti abbiamo conosciuto attraverso le sue imprese mediatizzate: i record sulle pareti nord delle Alpi, la corsa sugli 82 quattromila alpini, la strepitosa salita in solitaria all’Annapurna e altre ancora.
Un palmarès da capogiro ma che sembrava non saziarlo mai nemmeno al giro di boa dei quarant’anni. Il grande pubblico però non aveva percepito una grande trasformazione nell’animo del grande campione, avvenuta lontano dai riflettori e dopo il superamento di quelli che Ueli definiva i suoi “tunnel di negatività”. Il primo episodio traumatico fu la baruffa con gli sherpa che ebbe come teatro il campo base dell’Everest nella primavera di quattro anni fa. “Fu la prima volta in vita mia in cui ebbi davvero paura di morire”, raccontava. A destabilizzarlo fu la scoperta della violenza che si può nascondere nell’animo dell’uomo. L’episodio ingrippò i meccanismi apparentemente intaccabili della “Swiss Machine”. L’anno dopo, ripresosi da quella disavventura, firmò l’impresa forse più incredibile della sua parabola sportiva con la salita in solitaria della parete Sud dell’Annapurna. Una salita lampo che gli valse il secondo “Piolet d’or”, l’Oscar dell’alpinismo (il secondo della sua carriera), ma che convogliò anche sul suo personaggio una valanga di polemiche per la mancanza di prove concrete dell’autenticità della salita. Niente foto e nessuno lo vide in vetta: tanto bastò per scatenare le critiche di quegli stessi media che lo avevano sempre incensato.
Il rientro dall’Annapurna fu per Ueli ancora più difficile da metabolizzare perché, una volta rientrato a casa, si rese conto per la prima volta di aver preso troppi rischi durante una scalata estrema. “Avevo accettato di morire”, scriveva nel suo ultimo libro intitolato “Der nächste Schritt” (Il prossimo passo). Una grande paura s’impadronì allora della sua mente e per combatterla aveva bisogno di un nuovo traguardo: la traversata Everest-Lhotse. “Non è una sorta di Harakiri, ora so ancora meglio quali sono i limiti che non devo e voglio oltrepassare.” Il “figlio dell’Eiger” vedeva il suo nuovo progetto come una sfida sotto la soglia di rischio che era disposto ad accettare.
Steck però, ed era il primo a saperlo, non era un extraterrestre. Nemmeno uno di quelli che, stando alcune credenze fantascientifiche, avrebbero il dono dell’immortalità. Era un campione dello sport con un animo umano come tutti noi. Modesto, riservato e vulnerabile. Ce lo ha ricordato lui stesso, in modo brutale e involontario, con il suo ultimo passo.
RG delle 18.30 del 30 aprile 2017; il contributo di Ellade Ossola
RSI Info 30.04.2017, 20:45
Contenuto audio
Il reportage su Ueli Steck e la sua attraversata della Alpi (Sport Non Stop 22.11.2015)
Reportage 22.11.2015, 00:00
Faccia a Faccia Ueli Steck (Sport Non Stop 17.11.2013)
Faccia a Faccia 12.05.2014, 00:00
Alpinismo, il servizio sulla morte di Ueli Steck (Sport Non Stop 30.04.2017)
RSI Sport 30.04.2017, 20:17