Da domenica 14 aprile alle 18:45 su Rete Due
Girare la faccia da un’altra parte… per non girare la faccia dall’altra parte: potremmo riassumere così, con una provocazione, lo spirito del nuovo inserto radiofonico di Rete Due, che vuole raccontare in modo più equilibrato la società, guardando alle soluzioni oltre i problemi che la affliggono e che a volte esauriscono la nostra narrazione del reale
Ero convinto fosse una piccola città, Aarhus. Non l’avevo mai sentita prima, non sapevo neppure si trovasse in Danimarca. Era il 2017. Mi ci trovavo non per vacanza, ma per frequentare un corso di formazione, o masterclass, se preferite. Ero tra i (a posteriori lo posso dire: fortunati) membri di una delegazione che rappresentava la RSI. Un clima gioviale e un certo entusiasmo ci accompagnava. Eravamo all’epoca tutti impegnati nelle cosiddette hard news: chi soprattutto sul campo (tipicamente i colleghi del Quotidiano o delle Cronache) chi per lo più in ufficio, al desk, come si dice. Che poi non vuole dire altro che questo: seduto alla scrivania, sei inondato da agenzie di stampa in 4 lingue che ti vomitano addosso tutta la brutalità del mondo, la sua insensatezza, al ritmo di 10 dispacci al minuto.
O per lo meno, ero io a viverla così. Non proprio benissimo. Ho sempre apprezzato invece chi sulle notizie ci voleva saltare sopra a piè pari. Chi se le “mangiava”. Non lo dico con ironia. E non lo accuso di cinismo. Il desiderio di farsi attraversare da questo magma, assumerlo su di sé, rimasticarlo per il pubblico è una virtù essenziale per un giornalista e quando diventa missione, la qualità del lavoro ne è influenzata positivamente, chi guarda o ascolta ne beneficia ed è mia convinzione che tutto questa venga percepito.
Ero però - almeno personalmente - alla fine di questo ciclo. Forse anche per questo ero stato scelto. Ad Aarhus si svolgeva un corso in Constructive journalism, giornalismo costruttivo. Non entrerò qui nei meandri delle mille discussioni giornalistiche sul giornalismo. Ma vi assicuro: non sono solo questioni di lana caprina. Anzi, proprio per la modalità di lavoro che vi ho descritto poco sopra e per il modo nel quale sta evolvendo e potrebbe evolvere la situazione in Svizzera e altrove (meno risorse, meno persone, senza metterci di mezzo la politica, è solo un percorso già in atto), le occasioni per riflettere su ciò che si fa e su come lo si fa sono sempre meno.
Il giornalismo costruttivo vuole veicolare un’immagine più accurata ed equilibrata della società
Sin dalle prime battute del corso ho capito di essere nel posto giusto: anche chi lo teneva aveva vissuto la mia stessa parabola. E tutti ci ponevamo le stesse domande: perché una storia notiziabile è tipicamente una storia negativa? Perché sempre meno persone guardano i nostri telegiornali o ascoltano i nostri radiogiornali? Nelle risposte è condensata la storia del giornalismo degli ultimi decenni, le modalità di funzionamento delle newsroom, la loro trasformazione in “notizifici” (un’espressione che ho cominciato a usare da un certo punto in poi per la sua capacità di esemplificare le sfide cui siamo confrontati). Ben inteso, il punto qui non era contrapporre a tutto questo il TG delle buone notizie. No, no. Era prendere il mondo, le storie, il loro potenziale problematico e aggiungerci un pezzo. Volgere lo sguardo non solo al problema ma anche alle soluzioni. In un certo senso, girare la faccia da un’altra parte per non girare la faccia dall’altra parte.
Mi rendo conto che detta così sembra facile. Ma il trucco dei notizifici è proprio quello: sono dei luoghi che esercitano potere sulle persone che li abitano, che le informano di pratiche consolidate e a volte asfissianti. Finché ci sei dentro è difficile accorgersene, anche se ho vissuto il genuino sforzo di colleghi a non diventare degli “impiegati della notizia”.
Da Aarhus in poi, ho provato in modo più consapevole a incorporare elementi di giornalismo costruttivo nel mio lavoro, un passo dopo l’altro, prima all’informazione e poi nel Dipartimento Cultura e Società della RSI. Cliché Click andava dopotutto già in questa direzione: prendere il cliché, l’usato sicuro ma anche un po’ stantio e capire come nel mare magnum di internet qualcuno aveva provato a trasformarlo in qualcosa di nuovo. Mi piacerebbe che Rubik rendesse tutto questo ancora più esplicito.
Il là a questo tentativo mi è stato dato dalla cronaca recente: la guerra in Medio Oriente, a Gaza. Un conflitto che è difficile affrontare in maniera non partigiana, di una brutalità e una complessità senza precedenti, nei confronti del quale parlare di pace - e di quale pace – sembra sempre meno opportuno: di volta in volta esercizio politico-diplomatico, auspicio naif senza fondamento, digressione (magari occasionata da una tregua temporanea).
Poi mi sono imbattuto in un articolo, scritto da uno sconosciuto (a me) ricercatore canadese a Liverpool, Colin Irwin: How Israel failed to learn from the Northern Ireland peace process, pubblicato tra l’altro su un sito che vi raccomando, theconversation.com.
E mi sono detto: ecco un modo non ideologico di parlare di pace. Un modo costruttivo di farlo. Un modo positivo, ma non ingenuo. Opinabile, ma non peloso. Con posizioni anche forti, ma radicate nell’esperienza. Tra queste, una su tutte: in un negoziato, devono essere rappresentate tutte le posizioni, anche quelle estreme. All’epoca quelle dell’IRA, per esempio, l’Irish Republican Army, braccio armato dello Sinn Féin. Sareste d’accordo?
Una posizione negoziale estrema non è altro che questo: solo una posizione negoziale
Partendo da questa posizione, mi sono ritrovato a cercare attivamente spunti che andassero in questa direzione. Non ve li elencherò tutti qua, per il rischio che non si traducano mai nel programma radiofonico che vorrei realizzare, magari per indisponibilità degli ospiti, ma voglio per lo meno raccontarvene alcuni.
Ho messo per esempio gli occhi su chi in Iraq – il Paese al mondo maggiormente dipendente da fonti fossili – si occupa di energie rinnovabili – e solare in particolare – o su chi guarda al conflitto tra Etiopia ed Egitto attorno alla Grande Diga della Rinascita etiope attraverso la lente della musica e della water diplomacy, uno strumento che si avvale del potere dell’immaginario.
Ho maneggiato il primo rapporto UNESCO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di educazione e cultura) sulla moda africana, con la sua promessa di cambiare la narrazione di un continente e trainarne l’economia, portando beneficio alle comunità locali.
Gli stilisti africani contribuiscono a riscrivere la narrazione del continente
L’orizzonte di Rubik vuole essere il mondo, la nostra speranza quella di abbracciarlo in tutta la sua complessità, che comprende l’imperfetta, perenne e a volte eroica ricerca di soluzioni.