Nel 1835, in quell’autobiografia mascherata dal titolo La vita di Henry Brulard, Stendhal riassunse il suo destino di scrittore in un celebre aforisma: «Per quanto mi riguarda gioco a una lotteria il cui primo premio si riduce a essere letto nel 1935». Bene. Quando ricorre un centenario in pochi si chiedono: chissà se la celebrità di turno ambiva davvero alla memoria imperitura. La cosa è talmente ovvia che la si dà quasi per scontata: chi non la vorrebbe, magari dissimulando?
Ma se c’è un artista per il quale la domanda potrebbe avere senso – tanto era anticonvenzionale, spiazzante e nemico dell’ufficialità – questi è Erik Satie, scomparso il 1° luglio di cento anni fa. Il suo ostinato understatement potrebbe spingersi fino a ridersela delle celebrazioni postume.
Ma chi può saperlo. Perché Satie, in tutti i sensi, è stato tutto e il contrario di tutto: radicale e neoclassico, esilarante e seriosissimo, pop ed esoterico, seduttore e insopportabile (non di rado volutamente, ma non sempre). La sua musica, in una scena dominata da fenomeni quali Debussy e Ravel, avrà forse dei limiti, eppure tutti, nessuno escluso, rimanevano a bocca aperta di fronte ad essa. E lo stesso succede ancora oggi.
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