CICLISMO - IL COMMENTO

Arenberg, storia delle mitiche pietre della Corsa infernale

Per la prima volta sarà introdotta una chicane all’imbocco del pavé

  • 04.04.2024, 09:28
  • 04.04.2024, 15:01
Arenberg

Lunga e impervia è la via che porta a Roubaix

  • freshfocus
Di: Stefano Ferrando 

Davanti agli occhi una fiamma che arde. Elegante, sinuosa, si muove elegante, affascinante, ipnotica. Impossibile staccare gli occhi da lei, fatalmente ci si avvicina sempre più, al punto tale da voler farla propria ma… quella fiamma non può avere un padrone, ha una vita solo sua, ha regole che non si possono modificare. Possiamo solo evitarla, distogliere lo sguardo, non cambiarla ma sarebbe un vero peccato. Arenberg è la stessa cosa: 2300 metri di pietre e fango quando i cieli del Nord riversano giorni e giorni di pioggia o di pietre e polvere, quando il sole asciuga velocemente la strada e il vento spazza i sassi. Ti attira, ti fa sognare ma non puoi modificarla, puoi evitarla, toglierla dalla Parigi-Roubaix (come nel 2005 perché troppo pericolosa) ma a quel punto la Corsa diventa un’altra cosa.

Arenberg, una strada dritta che prima scende per poi, dopo un terzo, iniziare a risalire, proprio dove le pietre sono più sconnesse, proprio dove vorresti essere già fuori da quell’Inferno. Lo sguardo a quel punto guarda più avanti e benché sia tutta dritta non riesci a vedere la fine. Senti le urla di chi è lì da ore ad aspettare, li senti, non li puoi vedere perché gli occhi devono essere fissi sulle pietre, su ciò che il futuro può riservare da un istante all’altro. Senti il dolore a gambe e braccia perché settore dopo settore è come prendere un cazzotto in pieno volto e a quel punto il dolore è costante, perenne. Le mani bruciano e si aggrappano al manubrio per tentare di galleggiare sulle pietre. Qualcuno inizia a piangere e chiedere pietà perché da qualche centinaio di metri è entrato all’Inferno ma se ne rende conto solo in quel preciso istante.

Arenberg e la sua leggenda nascono quando la Corsa è già un’anziana signora che sta perdendo fascino. È il 1968, anno di rivoluzioni politiche e sociali, non può essere un caso che la Parigi-Roubaix la includa proprio in quell’occasione. Jacques Godet, direttore de L’Equipe teme per la sua corsa, incarica Albert Bouvet di trovare nuove strade, di ricreare e salvare l’essenza di Roubaix. Le pietre stanno sparendo “mangiate” dall’invenzione di un ingegnere scozzese di un secolo prima: John Loudon McAdam inventa una superficie composta da pietre compresse che finisce per ricoprire, nel corso degli anni, le sconnesse strade di campagna, le secolari strade romane. Il Macadam è il killer della Parigi-Roubaix (nel 1965 sono solo 22 i chilometri di pavé), la Corsa che sta diventando preda delle ruote veloci, tanto che il vincitore esce da sprint più o meno numerosi.

Jean Stablinski è al suo ultimo anno di carriera: ha vinto un Mondiale, una Vuelta, tappe nei Grandi Giri. Conosce Wallers e quelle terre di sofferenza benissimo perché figlio di minatori e perché ancora ragazzino ha lavorato in una fabbrica di zinco per comprare la prima bicicletta. È lui a suggerire a Bouvet il passaggio ad Arenberg. La prima reazione di Jacques Goddet è una sentenza che appare inappellabile: “C’est orrible!”. Troppo pericoloso, impossibile far passare la corsa da quel tratto ma la perseveranza di Bouvet e Stablinski sarà il seme della nascita del mito.

Stablinski, unico uomo che può pronunciare queste parole: “Sono l’unico ad essere passato sopra e sotto Arenberg”. Sopra quel ponte che collega la miniera (chiusa nel 1989 e resa celebre dal film di Berri “Germinal”, tratto dal capolavoro sociale di Emile Zola) al paese vicino. Sotto, lungo le pietre della Trouée, uno dei tanti nomi dell’infernale strada. Ma quel è il suo vero nome? Arenberg, Wallers, Trouée, Tranchée. Sulle mappe troverete la dicitura “La drève des Boules d’Herin” («Drève», una linea retta incorniciata da alberi ai suoi lati). Il termine Trouée appare negli anni Settanta anche se, forse, quello più calzante rimane Tranchée: “trincea”, quella che rievoca le sofferenze della Grande Guerra, del sanguinoso Fronte occidentale che ha ferito per cinque interminabili anni queste terre.

In quella “breccia” nascono ma più spesso finiscono le storie: ne sa qualcosa Filippo Colombo che lo scorso anno, dopo La Ronde e le sue pietre in verticale, sta domando le pietre della Roubaix, sempre avanti, sempre potente e al tempo stesso leggero nel sorvolarle, fino ad Arenberg dove una caduta davanti a lui lo manda a terra sbriciolandogli un gomito. Lo sa “Il Leone delle Fiandre”, Johan Museeuw che nel 1998 entra nella palude di Arenberg da signore dei sassi, scatenando tutta la sua forza ma finendo tradito dalle sue pietre nascoste dal fango, quello che lo fa finire a terra. La forza e l’adrenalina lo fanno risalire in sella quando gli occhi vedono il suo ginocchio completamente aperto, la rotula in frantumi, come i sogni che riprenderà a intrecciare con la realtà in altre due occasioni.

C’è un prima e un dopo Arenberg. Prima è una lunga attesa che diventa spasmodica a pochi chilometri dal suo ingresso. I corridori diventano nervosi, fanno a spallate quasi senza esclusione di colpi perché è fondamentale entrarci nelle prime venti posizioni. A un chilometro dalla miniera il cuore è in gola, pompa all’impazzata, se non si dovesse tenere gli occhi ben aperti sarebbe da chiuderli e tuffarsi nell’ignoto perché puoi percorrere Arenberg mille volte ma ogni volta dovrai fare la conoscenza con le sue pietre che si muovono, affondano sotto il peso degli anni, della pioggia che rende morbida la terra, dell’erba che cresce e che da due anni a questa parte una quarantina di capre ripulisce facendo merenda e rendendo la Foresta un luogo romantico oltre che duro e severo.

Dopo Arenberg, se ne esci, non sei lo stesso: hai vissuto ciò che pochi possono provare e nessuno immaginare. Andare oltre, in una terra sconosciuta, percorrere una strada di vita che spinge oltre le proprie umane capacità fisiche e mentali. Dopo Arenberg puoi sorridere ma non troppo, all’orizzonte Mons en Pévèle, Camphin en Pévèle, Carrefour de l’Arbre con il vento che spazza lateralmente le residue forze, curve a novanta gradi, pietre lisce e scivolose, polvere o fango a ricoprire muscoli doloranti e il sogno di entrare in quel vecchio Velodromo. Ma questa è un’altra storia.

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