Da una quarantina d’anni ormai World Music è diventato un termine mercantile, abituale, abusato e stereotipato mentre in passato era quasi esclusivamente materia per etnomusicologi. Ma giusto 40 anni fa, nel 1985, usciva la prima edizione di un fortunato volume curato dall’etnomusicologo Jeff T. Titon intitolato Worlds of Music. Le stesse parole, ma coniugate a generare un significato praticamente antitetico. Sullo sfondo, certo, la globalizzazione, ma rispetto a lanciare sul mercato l’accrocchio disinvolto di suoni e linguaggi pescati ai 4 angoli del globo, tutt’altra cosa è alimentare la consapevolezza che il nostro pianeta ospita innumerevoli mondi musicali anche radicalmente diversi, ma pur sempre accomunati dall’essere concepiti come musica. La World Music mira a vendere. Worlds of Music mira a far crescere una inedita cultura pluralista.
Cambiando paradigma: e se ora noi intendessimo questa idea di “mondi musicali” diversi non solo in senso geografico, ma come alternativa non gerarchica al plurisecolare concetto di “generi musicali”?.
Sono queste le riflessioni (elucubrazioni?) scaturite dall’ascolto di un recente album di un musicista decisamente spiazzante e non classificabile: Etienne de la Sayette & the Wild Horses Orchestra, questo il titolo del suo ultimo lavoro uscito per la Muju Records. Non classificabile, ma nel senso di congenitamente ibrido, bizzarro, grondante ironia e così spudoratamente “leggero” da risultare a tratti irresistibile.
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