Jonathan Demme
La Recensione

“Stop Making Sense”

Restaurato in formato IMAX ad altissima risoluzione il film “Stop Making Sense”

  • 24.10.2023
  • 23 min
  • Franco Fabbri
  • Keystone
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L’occasione di questa recensione è il restauro in formato IMAX ad altissima risoluzione del film “Stop Making Sense”, girato nel 1983, sotto la direzione di Jonathan Demme e dei Talking Heads. In occasione dell’uscita del film nelle sale IMAX (che ha poi registrato un record di incassi negli Stati Uniti), i quattro membri del gruppo si sono trovati insieme per la prima volta dopo molti anni all’International Film Festival di Toronto, intervistati da Spike Lee. L’atmosfera dell’incontro ha lasciato intendere che potrebbe esserci, in un futuro più o meno prossimo, una riunione del gruppo. Del film è in circolazione anche un DVD, che se non può offrire la qualità del sistema IMAX è comunque il frutto di un altro restauro, sia delle immagini che del suono.

Stop Making Sense” è, in sostanza, la ripresa di un concerto dei Talking Heads, con la partecipazione dei quattro membri originali (David Byrne, Tina Weymouth, Jerry Harrison, Chris Frantz) più alcuni musicisti aggiunti, in ruoli tutt’altro che subordinati: il chitarrista Alex Weir, il tastierista Bernie Worrell, il percussionista Steve Scales, le coriste Lynn Mabry e Ednah Holt. Negli anni il film è assurto a fama internazionale, non solo tra i fan dei Talking Heads, come “migliore film di un concerto rock” nella storia del genere. Nei titoli di testa la direzione è attribuita a Jonathan Demme e ai Talking Heads; all’epoca Demme aveva alle spalle una carriera relativamente breve: i suoi film più famosi, come Il silenzio degli innocenti o Philadelphia, sarebbero arrivati qualche anno più tardi. Del resto uno dei registi più amati oggi, Martin Scorsese, iniziò come operatore durante il festival di Woodstock. Nel concerto sicuramente David Byrne ha il ruolo del mattatore, ma il contributo degli altri membri del gruppo non è marginale, e non si limita all’aspetto strettamente musicale. La scenografia è semplice, quasi scontata, ma efficace: si inizia col palcoscenico vuoto, senza quinte e senza fondale, e man mano si aggiungono a vista gli strumenti e gli arredi di scena. Anche le coreografie non sono complicate, ma vivaci e in linea con gli stili della danza contemporanea di quel periodo. Visti ora i Talking Heads sembrano giovanissimi, quasi dei ragazzini, ma si resta impressionati dalla qualità della loro performance e soprattutto dall’unità stilistica che percorre un repertorio nato (a quel punto) in dieci anni di carriera. È una musica nata da un lavoro collettivo, come tutta la musica pop-rock creata dai gruppi nei decenni a partire degli anni Sessanta: una modalità compositiva che non ha altri riscontri nella musica occidentale, e sulla quale vale la pena di riflettere.

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