Yasmine Hamdan è una cantante, autrice, compositrice, produttrice libanese. I Remember I Forget è il suo terzo album da solista (se si esclude qualche riedizione di album già pubblicati), ed è uscito a otto anni di distanza da quello precedente. Le registrazioni sono avvenute a Parigi, dove ora Hamdan risiede insieme al marito, il regista e attore palestinese Elia Suleiman. La carriera musicale di Yasmine Hamdan inizia a Beirut nel 1997, con il duo Soapkills (insieme a Zeid Hamdan, che non è parente), pioniere in Medio Oriente della musica basata su sintetizzatori, quella che negli ambienti della critica pop viene chiamata electronica. Le recensioni, molto positive, dell’ultimo album parlano di arab contemporary music, dove il carattere arabo è evidente soprattutto nel canto e in qualche assolo strumentale, mentre l’accompagnamento è fortemente legato al suono dei sintetizzatori e alle ripetizioni generate da sequencer e loop. Per chi non frequenta abitualmente la popular music mediorientale, ma ha qualche ricordo di altre epoche della musica transnazionale, il collegamento inevitabile è a certe produzioni dei primi anni Ottanta, nelle quali voci melismatiche del Maghreb o del Medio Oriente venivano sovrapposte a una base pop, come soprattutto nell’album di Brian Eno e David Byrne My Life in the Bush of Ghosts, dove, in una traccia, una cantante libanese (che coincidenza…) era accompagnata da una sezione ritmica reminiscente dei Talking Heads (che si trattasse di una cantante, Dunya Younes, e non di una “Lebanese mountain singer” come c’era scritto sulla copertina dell’album lo si seppe molto tempo dopo…). Quella traccia, è stato detto, creava il sound della world music in anticipo di qualche anno sulla creazione dell’etichetta di genere. Ma nel lavoro di Yasmine Hamdan c’è ben poco della casualità estetizzante di quegli approcci alle musiche del mondo o di tutti i giorni (nel famoso album di Eno e Byrne le registrazioni accompagnate in studio da basi new wave contenevano un po’ di tutto): è la voce di Hamdan che ascoltiamo, insieme agli strumenti che lei stessa ha suonato, e soprattutto i testi delle canzoni sono tratti da vari repertori della tradizione araba, dalla muwashshah, la prima forma strofica della poesia araba nata in al-Andalus (la parte della penisola iberica arabizzata) nell’undicesimo secolo, a certe strofe cifrate con cui le donne palestinesi, ancora in epoca ottomana, comunicavano segretamente con i loro uomini imprigionati dai turchi. Insomma, sotto (o sopra) una patina elettronica ci sono in questo album canzoni che raccontano la storia, e anche la storia personale dell’autrice e cantante, nata a Beirut, poi trasferitasi con la famiglia in Kuwait, poi da lì sfuggita all’invasione irachena, poi rientrata a Beirut, e infine – dopo il Covid e la tremenda esplosione nel porto della città libanese – approdata a Parigi. «Ho vissuto questa esperienza di esilio», ha detto in un’intervista a The National, «che mi ha segnato profondamente… quando siamo tornati in Libano non ho pensato di tornare nel mio paese, ma nel posto da cui venivano i miei genitori, i miei parenti, e dove avevo legami emotivi».
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