Incompresa. Questo fu Giuni Russo per buona parte della carriera. Il primo Sanremo nel 1968, soltanto sedicenne, senza successo. L’ultimo – dopo 35 anni e tanti no – nel 2003, troppo tardi, poiché quando risalì su quel palco era già molto malata, la sua testa calva lo testimoniava.
Lo fece con una canzone bocciata in precedenza ben due volte, scritta anni prima dalla sua compagna di una vita, Maria Antonietta Sisini e da Vania Magelli.
Prigioniera dei suoi grandi successi balneari (“Un’estate al mare” e “Alghero”), l’artista siciliana anelava ad altro, e FECE altro (musica sperimentale, d’avanguardia, jazz, a respiro religioso), in gran parte però osteggiata da un’industria discografica che l’avrebbe voluta sempre cantante da spiaggia.
Aveva imboccato strade diverse, meditato più volte il ritiro.
Aveva abbracciato il misticismo e in particolare la figura di Santa Teresa d’Avila, e quel brano che faceva risaltare tutta la sua voce duttile, ipnotica, per qualcuno celestiale, suonava come una preghiera. Fece breccia. Si narra che durante quel Festival Caterina Caselli, emblema del potere dei discografici, andò a trovare Giuni Russo e la Sisini in albergo, chiese scusa per le incomprensioni del passato e l’incontro finì con un comune pianto liberatorio.
La voce ancora straordinaria colpì tutti ma l’ironia della sorte si ripeté: settima in classifica, alla canzone andò il premio per il migliore arrangiamento, di Roberto Colombo e Franco Battiato. Di premi Giuni Russo non ne vinse.
Gli acuti finali, un gioco per una che poteva raggiungere senza difficoltà le più alte tonalità dei gabbiani, sembravano avvicinarla al cielo che l’avrebbe accolta solo un anno più tardi.
Scopri la serie
https://www.rsi.ch/s/2043088