Da bambina mi piaceva ripetere “a me piace cantare”, accompagnando le parole con un gesto delle braccia verso l’alto. Non sapevo perché. L’ho capito da adulta: il canto per me è una cosa sacra, un gesto rivolto al cielo. Un dono di Dio che guarisce l’anima.
Giuni Russo
In una torrida mattina d’estate, una di quelle in cui la canicola ti morde con voluttà ai polpacci, e affaccendato pigramente in consegne domestiche vengo rapito dalla radio che propone “Un’estate al mare”, iconica canzone estiva che riesce ancora a farsi largo tra le maglie del tempo sgomitando tra le insignificanti “Sesso e Samba” del momento. I pensieri si affastellano lasciando il tempo che trovano, e mi chiedo: chissà se tra anni ricorderemo i tormentoni contemporanei, ma soprattutto ritorna vivida nella mente quell’immagine straordinaria di un’artista che dopo 35 anni sale sul palco di Sanremo (2003), col capo rasato finemente tatuato con l’hennè, segno tangibile della malattia che la sta consumando. E su quel palco ci sale con il carisma e quella voce prodigiosa per portarci in dono una canzone (“Morirò d’amore”) e soprattutto un’interpretazione sublime, toccante e commovente di un brano rifiutato per ben due volte dalla commissione del Festival.
Una canzone che conferma una vocalità rara e preziosa, unica. Perché ci sono voci che incantano, voci che emozionano e stordiscono. La sua scalava il cielo e sfidava gli abissi. Giocava con angeli e comete attraversando il tempo e lo spazio.
Giuni Russo ci lascerà nel settembre del 2004, dunque 20 anni fa. Scegliendo di esser seppellita nello spazio dedicato alle Carmelitane nel Monumentale di Milano. Un’artista, una voce e soprattutto una donna davvero unica, golosa di musica, che spaziava dal pop alla lirica, dalla canzone autore al jazz e al blues alla world music. E aliena alle logiche del gusto, dei canoni e del business musicale italiano. Ed “Aliena- Giuni dopo Giuni” è pure il titolo dell’album postumo pubblicato nel 2021. Aliena per indiscutibili e rare qualità vocali, per il rigore e una sete di conoscere, sperimentare e crescere nell’arte come nella vita.
Nella sua prima vita artistica Giuni Russo è Giusy Romeo. Giuseppa è il nome di battesimo, penultima di dieci figli. Papà Pietro è pescatore e come la moglie ama la lirica e la canzone napoletana. E da loro Giuni mutua anche l’amore per il mare. Il papà che l’adorava se la portava spesso a Ustica dove Giusy vorrà tornare poco prima di morire, alla Grotta Azzurra: un bagno per riassaporare l’infanzia e una preghiera alla Madonnina come faceva il padre per propiziare la pesca. Giusy sin da piccolo percepisce che il canto sarà la sua vita. Lo coltiva, lo studia, trova dei lavoretti per potersi permetter le lezioni di canto senza gravare sui bilanci famigliari. Ama la Callas e Aretha Franklin, ama cantare e cantare ancora, sempre di più. Nel 1967 vince il Festival di Castrocaro interpretando “A chi”, e l’anno successivo partecipa a Sanremo col nome appunto di Giusy Romeo cantando “No amore”, scritta da Pallavicini e Enrico Intra; e poi una lunga, intensa gavetta che la porta a collaborare, a scrivere e a interpretare brani per e di numerosi artisti. Conosce Maria Antonietta Sisini, musicista sarda a cui si lega nell’arte e nella vita e Alberto Radius. Il celebre chitarrista e produttore romano la introduce alla corte di Franco Battiato che oltre ai propri lavori - erano gli anni di “L’era del cinghiale Bianco” e “L’arca di Noè” - coltiva nuovi progetti di rilievo e originali, all’avanguardia rispetto ai canoni pop dell’allora italica canzone. Progetti che segnano il debutto di Alice e di Sibilla, alcuni album di Juri Camisasca e dello stesso Radius, senza scordare la collaborazione con Milva.
Il sodalizio tra i due artisti siciliani è a dir poco fulminante! Battiato come Maria Antonietta Sisini non l’abbandoneranno mai, anche nei momenti bui, anche quando Giuni subiva l’ostracismo di ottusi discografici. Battiato le cuce addosso brani originali come Giuni stessa mi confermò. Canzoni capaci di blandire ampie fasce di pubblico, valorizzando al contempo il suo immenso talento vocale. Questa intesa affinità artistica e umana produce “Energie” nel 1981, ripubblicato l’anno successivo a fronte del clamoroso successo di “Un’estate al mare”; brano molto meno sbarazzino di quanto si pensi, firmato anche da Battiato e Giusto Pio. Giuni Russo vive così una stagione di grande successo popolare, coglie i frutti di una collaborazione che coniuga pop e avanguardia. Occupa la televisione, le radio, i media in generale. Ma c’è un ma: Giuni vive sempre più una sorta di idiosincrasia nei confronti della “canzonetta”, nella quale non vuol esser imbrigliata.
“Un’estate al mare” avrebbe dovuto esser una parentesi perché a Giuni interessava sperimentare. Invece il sentore di diventare ostaggio di un cliché da cui vuole affrancarsi era dietro l’angolo; anche se “Alghero” altro tormentone estivo rientrava nella categoria dei successi estivi da cui voleva allontanarsi. A questo proposito ricordo che la prima volta che l’incontrai per intervistarla fu nel 1994, in occasione della pubblicazione di “Se fossi più simpatica sarei meno antipatica”. Un’ intervista in cui mi invitò, quale esponente della radiofonia, a proporre brani quali “La sua figura” piuttosto che reiterare gli antichi fasti. A svelare cioè la sua anima artistica più vera, eclettica, sperimentale, annoiata e avulsa dagli stilemi del pop.
“La sua figura”, che interpretava spesso prostrata, così come “La sposa”, che si avvale della presenza del coro delle Carmelitane scalze del Duomo di Milano, testimoniano quella ricerca spirituale, oltre che artistica, che trova proprio in San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila, fondatori dell’ordine dei Carmelitani scalzi quelle riposte a quel bisogno di spiritualità che mai più la abbandonerà. Anzi, è una fede alla quale abbandonarsi, studiando, meditando, frequentando le Carmelitane di Milano. Ancora oggi le “sorelle” la ricordano con affetto e rispetto.
Giuni aveva già mostrato questa sua insofferenza artistica registrando tempo prima un album di grande qualità e originale: “A casa di Ida Rubinstein”, pubblicato da “L’ottava” di Franco Battiato, l’unico che stimolava le sue scelte artistiche tutt’altro che ortodosse per l’epoca. Un disco che seguiva “Vox” e “Mediterranea”, album sempre in bilico tra la sperimentazione e il compromesso. Disco nel quale l’artista siciliana si dedica ad un repertorio d’autore, con brani di alta qualità e non più le “canzonette estive”. Interpreta in modo originale arie e romanze di Verdi, Donizetti, Bellini. Ed è l’ennesima ed eccellente dimostrazione delle qualità interpretative e vocali, e soprattutto la conferma della ricerca costante di una propria dimensione artistica e umana, di una propria libertà espressiva che si rivela sempre più condizione “sine qua non”. E che oggi risulta merce preziosa, merce davvero rara. Giuni onorava la sua libertà espressiva anche coltivando e vivendo la fede, leggendo testi di ascetica e mistica e liberando la sua stupefacente vocalità a servizio della sua scrittura - anzi la loro scrittura, sua e della Sisini - interrogandosi al contempo sul Mistero, anche per offrire un senso compiuto al proprio canto. Brani quali “Il Carmelo di Echt” di Juri Camisasca, dedicato a Edith Stein e alla sua deportazione verso Auschwitz o “Moro perché non moro” sono alcune delle perle luminose al pari delle sue interpretazioni di Battiato.
20 anni fa, la notte tra il 13 e il 14 settembre Giuni Russo ultimava la sua parabola terrena; una donna con cui l’Italia musicale è assolutamente in debito. Per fortuna M.A. Sisini, compagna di una vita, prosegue con passione e abnegazione a custodire e valorizzare la sua memoria, promuovendo il suo patrimonio artistico e culturale oltre a valorizzazione lo studio e la ricerca della musica nei suoi diversi aspetti e tematiche grazie all’associazione culturale “GIUNIRUSSOARTE”.
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