dall'inviato a PyeongChang Piergiorgio Giambonini
In Svizzera ci sono una marea di Müller, e di Schmid, e di Meier. È vero. Com’è vero che in Italia ci sono un sacco di Rossi, di Russo e di Ferrari. Che in totale, gli italiani con i tre cognomi più diffusi, non arrivano però nemmeno a 190'000 su una popolazione di 61 milioni. Tutto questo per introdurre il tema dei cognomi coreani. Che così a prima vista, dopo qualche giorno e qualche lettura qua e là, sembrano di fatto essere appena tre. O al massimo quattro o cinque. Incredibile ma vero. Eppure qui sembrano chiamarsi tutti Kim, Lee o Park. Tre cognomi utilizzati da quasi metà della popolazione. E stiamo parlando di un totale di 51 milioni di sudcoreani. Se poi ci aggiungiamo anche Choi e Chung, il quarto e quinto cognome più diffuso, si sale al 54%. Il 21% e rotti dei sudcoreani, ovvero quasi 10 milioni, di cognome fa Kim. E il 15% Lee.
Fino a una ventina d’anni fa, tra l’altro, un matrimonio tra un uomo e una donna che l'avevano uguale non poteva venir registrato. I malcapitati per legge erano destinati a risultare conviventi, e non appunto marito e moglie. Questo, appunto, fino a metà degli anni 90. A proposito: le donne coreane quando si sposano mantengono il loro cognome, ma i figli prendono invece quello del padre.
E andando ancora più indietro nel tempo, pensate che fino nel 1700 solo le famiglie nobili avevano diritto ad avere un cognome, privilegio - per modo di dire - che venne poi allargato anche ai commercianti, e solo a partire dal 1894 venne data a tutti la possibilità di... acquistarne uno. E allora tutti, ma proprio tutti, andarono a scegliere quei quattro che per secoli e millenni eran stati sinonimo di nobiltà: Kim, Lee, Park e Choi. Che se la spesa andava fatta, allora tanto valeva scegliere il meglio.