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Camera d’eco

Bambine - Alice Ceresa

Un romanzo incandescente, pieno di humor e di malagrazia, nel quale l’autrice sviluppa un’acuta diagnosi del disastro del crescere.

  • 22.10.2022
  • 3 min
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Il mio nome è Francesca Rodesino e sono una dottoranda in italianistica dell’Università di Zurigo.

Oggi vorrei parlarvi del secondo romanzo di Alice Ceresa, che uscì per Einaudi nel 1990 con il titolo Bambine. Ceresa nacque in Svizzera nel 1923, ma visse per la maggior parte della sua vita a Roma. Celebre per il suo sguardo libero e lucidissimo sulla realtà e per il suo stile perturbante e inconfondibile — che mescola codici e linguaggi diversi — Ceresa è senza ombra di dubbio una delle punte di diamante della letteratura femminista e sperimentale italiana del secondo Novecento.

Tutta la storia di Bambine si svolge in un’atmosfera gelida e grottesca, nella quale si incontrano corpi sproporzionati e irrealistici accanto a descrizioni che ricordano un referto scientifico, in un’esplosione di contrasti sorprendenti, ironici e micidiali. È quindi un libro molto spaesante: un po’ manuale di biologia, un po’ Beckett, un po’ saggio filosofico e un po’ Buster Keaton.

Protagoniste dell’avventura, o della disavventura, sono due piccole sorelle, chiamate in modo asettico “figlia minore” e “figlia maggiore”. Durante la loro crescita — dall’infanzia all’adolescenza — le due si relazionano con degli altrettanto impersonali “madre” e “padre”, formando una perfetta famiglia patriarcale, che ha scelto come forma di convivenza la disuguaglianza e la brutalità dei rapporti. Questa si riflette nella lingua dura e altisonante dell’opera, fatta di “dipoi” e di “quantunque”, la quale però si scontra in modo comico con un lessico anche basso e pieno di vezzeggiativi, che include oggetti “spampanati” e “stoppolosi” e figure “paffutelle” e “sudaticce”.

Al centro del libro vi è dunque una situazione comunissima, la quale viene però raccontata come se fosse osservata da un occhio per la prima volta. L’immagine dell’occhio, del resto, è centrale in Bambine, non solo perché di sguardi si parlerà continuamente, ma anche perché è su questa immagine che si chiuderà il romanzo.

I personaggi di Bambine — privi di nome proprio e di scavo psicologico — sono meticolosamente osservati dall’esterno, come dall’obiettivo di una macchina fotografica, un po’ al modo del Nouveau Roman francese. A occupare tutto lo spazio della storia sono dunque i comportamenti e i corpi di questa famiglia, secondo gli stereotipi più indigesti. Il padre viene visto sollazzarsi con la pesca e la lettura del giornale, mentre la madre si affanna dietro una pila di piatti e pentole. Sfruttando la comicità degli atteggiamenti infantili e quella dell’alterazione dei corpi tipica della pubertà, le due protagoniste sono raffigurate in modo enfatico, come quando saranno viste “gonfiarsi dolcemente come pasticcini al forno”.

Credo che Bambine sia il capolavoro di Ceresa. Tra immagini piene di ironia e descrizioni accanite dei tic e delle storture che governano i comportamenti della famiglia protagonista, i suoi rituali e le sue gerarchie di potere, quest’opera è una diagnosi formidabile del passaggio dall’infanzia alla pubertà di due piccoli esseri umani femminili, che in questa crescita non trovano mai un barlume d’uguaglianza e d’affetto: con tutto lo sgomento del caso.

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