La storia musicale degli ultimi cento anni abbondanti bisognerà (o bisognerebbe, almeno) riscriverla non più limitandosi a raccontare la cosiddetta “musica contemporanea”, ma tenendo conto del ruolo cruciale, imprescindibile, che jazz e popular music hanno avuto nel rivoluzionare la vita e la cultura musicale di miliardi di persone, ma diciamo pure del mondo intero. In questa prospettiva, ci sono autori che riemergono come pietre miliari, dopo che per alcuni decenni, un’avanguardia a conduzione autro-tedesca che si era intestata il futuro li aveva guardati con sufficienza (o con astio, addirittura), come marginali, epigoni fuori dalla storia.
Non solo Stravinsky e Debussy, che fin dal principio sono stati visti come pietre miliari, ma diversi altri, specie francesi, quasi a tracciare un “asse franco-russo” alternativo al supposto mainstream prima viennese e poi postweberniano. Fra i vari nomi svetta Ravel, autore innamorato del jazz e a sua volta, forse ancor più di Debussy, ammirato e analizzato instancabilmente dai maggiori jazzisti. C’è una vasta letteratura ormai che si occupa di tali questioni e alcune delle nuove uscite discografiche che si susseguono in occasione dei centocinquant’anni dalla nascita dell’autore del Boléro, ribadiscono questa sorta di affinità elettiva. Ultimo arrivato è un album Harmonia Mundi, intitolato Ravels, proprio così al plurale. Il Quatuor Debussy, oltre a riproporre il Quartetto in Fa (da loro già inciso una ventina d’anni fa), si avventura sul terreno della trascrizione di cui Ravel fu maestro “supremo”: Ma mère l’oye, trascritta ovviamente per quartetto e Le Tombeau de Couperin in cui ai quattro archi si aggiungono le improvvisazioni di un jazzista navigato come il vibrafonista Franck Tortiller. Una bella scommessa, se vinta o persa, solo l’ascolto lo può dire.
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