La tradizione italiana della scenografia prevedeva un taglio pittorico, che riassumesse l’intera scena in quadri dal fascino evocativo, in cui si apprezzava la pennellata dello scenografo stesso, artista, artigiano, responsabile dell’intero impianto visivo. D’altra parte, il referente finale era il direttore d’orchestra, non sempre interessato a porre in primo piano il dramma e la funzione drammatica delle scene, alle quali si richiedeva una bellezza di facile fruizione. Oggi, nel mutato contesto socioculturale, la funzione drammatica, secondo la visione del regista, prevale spesso sull’intero progetto, producendo a volte quadri complessivi inameni o addirittura volutamente sciatti. Nel primo di questi opposti eccessi non ricadevano le raffinate e filologiche produzioni di Vittorio Rota, scenografo alla Scala tra il XIX e il XX secolo, al quale Vittoria Crespi Morbio, storica e saggista, ha dedicato il volume Vittorio Rota e il teatro del suo tempo 1864–1945 (Edizioni Amici della Scala) – e con l’autrice ne parleremo in conclusione di puntata. Al contrario, la produzione di Nabucco del Circuito Opera Lombardia, improntata ad un immaginario visivo distopico e spoglio, disegnato dalle luci, si sarà salvata dal secondo eccesso di cui sopra? Ascoltiamolo dalla voce di Marco Cosci, musicologo e docente universitario, che ha appena assistito alla recita di Brescia.
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